ATTENZIONE: questo articolo contiene spoiler significativi. 

This is theatre. All of this.

Zero è una serie a fumetti americana pubblicata da Image Comics, composta da diciotto albi successivamente raccolti in quattro volumi dalla stessa casa editrice, scritta da Ales Kot e disegnata da diciotto disegnatori: uno diverso per ogni numero.

Di cosa parla la serie? Chi o cosa è Zero? Perché ti sei preso la briga di parlarne? Ecco, questo è un discorso complesso.

Sul retro di copertina del primo volume è posizionata un’indicazione di genere: Spy Thriller.
In effetti, usciti dalla lettura dei primi cinque capitoli, l’idea che ci si fa è proprio quella: un’agenzia che addestra orfani a diventare delle perfette macchine da guerra e da infiltrazione (War Machines è il titolo del primo episodio), un agente, Edward Zero, inviato a normalizzare situazioni delicate, una linea temporale che salta continuamente tra passato, presente e futuro mostrando diversi momenti della vita dell’agente Zero, apparentemente slegati tra loro.

Sembrerebbe il classico intreccio tipico di una storia in stile “La regola del sospetto“, sospeso tra realtà e menzogna in un mondo retto da costanti giochi di potere.
Eppure qualcosa non torna.

Programmare o essere programmati, questo il leitmotiv delle prima parte della storia: comprendere il senso delle nostre azioni: cosa ci muova a prendere, o meno, una determinata scelta. Edward Zero si avventura in un percorso di auto-coscientizzazione che, per forza di cose, non può aspirare alla linearità e, in certi frangenti, nemmeno alla coerenza. Costruire la propria persona diventa per il protagonista una pratica simile a ricomporre i pezzi di un puzzle: difficilmente si riesce a ricostruire tutta la figura partendo da un unico blocco centrale, è più probabile che se ne venga a capo più facilmente assemblando diverse parti montate singolarmente.

In quest’ottica la scelta di affidare ogni numero a un disegnatore diverso acquista una sua logica: ogni albo è un frammento, ogni albo è autonomo, ogni albo è parte del tutto, ogni albo è una monade (nel senso leibniziano del termine).
Nel concreto questa metodologia permette agli autori di adottare un’interessante soluzione stilistica: diciotto disegnatori diversi, diciotto pezzi di realtà diversi, diciotto storytelling diversi.

Michael Walsh, Tradd Moore, Mateus Santeoluco, Morgan Jeske, Will Tempest, Vanessa R. del Rey, Matt Taylor, Jorge Coelho, Tonči Zonjić, Michael Gaydos, Ricardo Lopez Ortiz, Adam Gorham, Alberto Ponticelli, Marek Oleksicki, Ian Bertram, Stathis Tsemberlidis, Robert Sammelin, Tula Lotay; le caratteristiche di ognuno di questi autori si trasformano nel mezzo attraverso il quale la serie riesce a proporsi come una costante piattaforma di sperimentazione: dall’infanzia trascorsa nell’istituto di addestramento narrata da Moore con un tratto infantile, quasi cartoonesco, alle colluttazioni sporche e sanguinose mostrate da Jeske; dalle vertigini psichedeliche di Vanessa R. del Rey, alle iperdettagliate tavole di Tsemberlidis.
La sensazione di spiazzamento è costantemente indotta nel lettore, che più di una volta si ritroverà a dovere riannodare i fili non solo di un intreccio che non ne vuole sapere di procedere secondo una traiettoria rettilinea, ma soprattutto di una narrazione imbizzarrita, fluida, incapace di mantenere la stessa struttura per troppo tempo.

Arrivati a questo punto è necessario tirare il fiato per un attimo per dedicarsi a una breve digressione: Ales Kot.

Kot è uno sceneggiatore originario della Repubblica Ceca, classe ’86, annoverato fra le nuove promesse della scena fumettistica americana e noto ai più per aver firmato i testi di serie Marvel come Secret Avengers (insieme, di nuovo, a Michael Walsh), Bucky Barnes (con Marco Rudy) e Iron Patriot (insieme a Garry Brown). Zero però non è il primo lavoro indipendente del ceco per la Image: la casa editrice indipendente americana infatti aveva già dato alle stampe altre due sue opere brevi: Wild Children (volume unico, disegnata da Riley Rossmo) e Change (mini-serie di quattro albi, successivamente raccolta in un volume unico, disegnata da Morgan Jeske), in cui lo sceneggiatore aveva già fatto sfoggio di due tratti distintivi: l’attitudine al sovraccarico e la familiarità con la meta-contestualità.

Avete presente quando, aprendo una pagina sul web, lo schermo viene riempito di pop-up invasivi relativi agli ambiti più disparati? Lo stesso effetto è percepibile in diverse pagine di Kot che volutamente infarcisce i suoi testi di riferimenti, connessioni, suggestioni e note, puntando a ricreare, su carta, un effetto molto simile a quello dato da un ipertesto.

Sia in Wild Children che in Material (serie ancora in corso, edita sempre da Image Comics e disegnata da Will Tempest), Kot svela apertamente le sue fonti di ispirazioni annotando, a bordo pagina, canzoni, pensieri, riferimenti bibliografici o semplici aforismi. La vicenda si trasforma così in un discorso aperto: uno scenario conflittuale, ulteriormente sondabile anche al di fuori, in cui la partecipazione attiva del lettore è fortemente richiesta. Purtroppo questo espedient fa sì che Wild Children sacrifichi parte della sua natura narrativa in favore di una tendenza didascalica troppo marcata: si ha la netta impressione che i concetti finiscano per fagocitare la storia.
Il sostrato concettuale è sempre determinante in Kot, che costruisce il fantascientifico Change come un elaborato ragionamento sull’elaborazione della sofferenza data da una separazione(/lutto). In Change, che può vantare una struttura più complessa e anche un maggior quantitativo di pagine rispetto a Wild Children, incubi di stampo lovercraftiano, motivi esistenzialisti e suggestioni spaziali collassano insieme, legati da una peripezia che si rivela essere molto più intima di quello che si sarebbe potuto sospettare.
Il meta-contesto che si viene a costituire genera un rischio notevole di fraintendimento: basta perdersi un link, non recepire un’informazione fondamentale, fra quelle veicolate dall’ipertesto/racconto, per perdere il filo del discorso. Non si tratta di un difetto del linguaggio ma proprio di una regola fondamentale della comunicazione: la trasmissione di dati tra due soggetti è impossibile se uno dei due è incapace di comprendere (o male interpreta) i riferimenti dell’altro.
Il risultato sarà molto simile a quello che avreste vedendo annuire a un greco per esprimere una negazione: una sensazione di straniamento.

Adesso possiamo tornare a Zero.

“Where did the horses go? Nobody Knows, nobody knows / But the boy and the girl who follow them home, who follow them home / Where there is no war, and there is no pain / They follow them home, then lie in the shade”

L’epopea di Edward Zero fa i conti con tutte le problematiche appena descritte, senza tentare la mediazione ma proponendo anzi soluzioni ancora più radicali tramite diversi approcci.
Il sovraccarico (iper)testuale viene concentrato completamente nella seconda parte della storia, mentre la prima parte è imperniata quasi completamente sull’immagine e sulla sua (s)composizione. Momenti di apparente tranquillità  si alternano a esplosioni di violenza efferata: la narrazione veicolata attraverso i disegni è tesa a comporre delle tavole facilmente leggibili ma dense di simboli e sottotesti.
Da questo punto di vista, il sovraccarico proposto in Zero si colloca su un livello superiore rispetto a quello osservato in Wild Children e Change, perché maggiormente conscio delle potenzialità del medium di riferimento (il fumetto), tanto da risolversi prevalentemente sulle forme acquistabili dal (di)segno.

L’orbita vuota in cui si situa un abisso oscuro, esibita in maniera reiterata dal protagonista, si impone facilmente come rappresentazione del rimosso: una concreta allegoria di un’incompletezza intrinseca a Edward.
Questo sottile equilibrio fra detto e non detto, fra rimandi più o meno velati a situazioni esterne a quella che sembra essere la vicenda principale, deflagrerà totalmente nella seconda e ultima parte dell’intreccio… e qui arrivano i problemi.

Dedicated to Joan Vollmer and William S. Burroughs Jr.

Non si può davvero affermare di non essere stati avvertiti: un personaggio, piuttosto rilevante, chiamato Ginsberg Nova* fa la sua comparsa già nel terzo albo ed è solo uno degli altri indizi disseminati, nel corso dei mesi, tra le pagine del fumetto; però è veramente difficile sostenere che l’apparato narrativo imbastito sia tale da potere giustificare la forma acquisita dalla serie nelle sue ultime battute: essere condotti per mano verso una legittima svolta, anche drastica, nell’andamento della storia è un conto, passare da una vicenda di spionaggio alla biografia di un autore simbolo della Beat generation come William S. Burroughs è un altro.

Quella tentata da Kot è una forma estrema di cut-up: tentare di completare il percorso di redenzione di un personaggio legando la sua vicenda a doppio filo con la biografia personale di uno scrittore che del cut-up ha fatto la sua personale cifra stilistica.
Il proposito è periglioso e in quanto tale anche ammirevole, sviluppato inoltre con una sensibilità non comune – il capitolo 15, “Where flesh circulates“, disegnato da Ian Bertram e incentrato sulla vicenda di Burroughs e Joan Vollmer** è uno dei picchi artistici della serie –  ma assistendo a un tale trasformazione repentina è difficile non sentirsi come di fronte al greco che annuisce.
Il meta-contesto si sostituisce completamente al contesto, le allusioni e i non detti diventano il focus del racconto e tutto questo avviene in un tempo (contestuale) troppo ridotto perché il lettore riesca ad assimilare l’accaduto.
Non si tratta di sentirsi traditi per il fatto che quel che si sta leggendo non sia più uno Spy Thriller, ma di non riuscire più a essere in linea con quello che viene veicolato dalla narrazione: la comunicazione risulta fallata e di conseguenza il messaggio perde di efficacia.

Non è un caso che, nonostante gli ultimi albi siano quelli più drasticamente focalizzati sulla tematica del perdono e dell’assoluzione, il capitolo più incisivo resti uno dei primi: il nono, Marina, disegnato da Tonči Zonjićin cui viene mostrata una drammatica decisione presa dal superiore diretto dell’agente Edward Zero, Roman Zizek: uccidere la donna amata per salvare suo figlio. Una decisione che, per quanto estrema, risulta perfettamente giustificata dall’intreccio e proprio per questo dirompente a livello emotivo.
Come ci saremmo comportati al posto di Zizek? Ci si può perdonare un’azione percepita come l’unica possibile in una determinata situazione?
Paradossalmente, proprio nel momento in cui il sotto-testo si assottiglia, i riferimenti meta-narrativi non sono ancora così imprescindibili per la fruizione del testo e la storia viene lasciata respirare, il cuore di Zero, la sua essenza pulsante, si mostra in tutta la sua potenza.

What was the question, Edward?

Alla luce di tutto quello appena scritto, non si può considerare Zero come un’opera pienamente riuscita: un’architettura sbilanciata non riesce a supportare adeguatamente dei momenti e delle intuizioni di indubbio spessore.
Il risultato però non sminuisce un approccio autoriale positivo e incoraggiante per l’intera industria di settore: Zero è il frutto di una sperimentazione costante, sia in termini concettuali che metodologici, portata avanti ostinatamente senza scendere a compromessi, sporcandosi le mani con la materia prima del medium fumetto, plasmata mensilmente in maniera differente.

Se è vero quel che sosteneva McLuhan (autore caro a Kot), cioè che “il medium è il messaggio“, allora Zero può essere valutato come un imperioso invito a trovare il coraggio di crearsi in prima persona la propria strada, senza adagiarsi sui binari tracciati.
Sfuggire alla programmazione imposta è il proposito dell’agente Edward Zero ed è quello che fa la serie che lo vede protagonista: cangiare costantemente per eludere i parametri.

Note:

*Irwin Allen Ginsberg è un poeta americano, esponente del movimento Beat e amico di William S. Burroughs e Jack Kerouac. “The Nova trilogy” è il nome con cui vengono indicati tre romanzi di Burroughs (La Macchina morbida, Il biglietto che esplode e Nova Express) in cui viene fatto un uso massiccio della tecnica del cut-up.

** La vicenda di Burroughs e la Joan Vollmer, sua seconda moglie, è tristemente nota: cercando di replicare la famosa impresa di Guglielmo Tell, usando la pistola al posto della balestra, lo scrittore sparò e uccise involontariamente la moglie.

Wild Children, Change e Zero sono tuttora inediti in Italia. L’unica versione al momento recuperabile è quella originale americana, sperando che qualche editore nostrano si decida, prima o poi, a tradurle.

Zero – Un discorso complesso

Un pensiero su “Zero – Un discorso complesso

  • 16 Settembre 2015 alle 12:33
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    Non avevo neanche mai sentito parlare di questo fumetto. Devo dire che questo bel trafiletto me lo ha reso davvero appetitoso e mi incuriosisce troppo il legame-non legame tra i vari albi con l’interpretazione e il punto di vista dei diversi disegnatori.

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