Questo è cinema.

Non riuscivo a fare a meno di ripetermelo mentalmente, durante la visione dell’ultimo film del regista messicano Alejandro Iñárritu, premio oscar per Birdman.
Non si tratta di una sensazione relativa (solo) alla bellezza intrinseca, ma si riferisce piuttosto al respiro, all’ambizione, allo sguardo della pellicola. Ma proseguiamo con ordine.

La vicenda del film è contenuta già tutta in nuce nel titolo: il cacciatore Hugh Glass (Leonardo DiCaprio) è un uomo che viene privato di tutto; ridotto a uno spettro errante, percorre i boschi del Nord Dakota tenuto in vita unicamente dal desiderio di vendicare il figlio meticcio Hawk, ucciso da John Fitzgerald (interpretato efficacemente da Tom Hardy), un membro della spedizione di cui Glass faceva parte.
Adattamento del romanzo omonimo di Michael Punke, la sceneggiatura si palesa come un esile scheletro di riferimento su cui Iñárritu imbastisce una narrazione epica intrisa di misticismo, sorretta da una veemenza immaginifica dirompente.

Proposto al pubblico come western di frontiera, The Revenant lascia cadere presto la sua maschera mostrando quello che è il suo vero aspetto: l’odissea personale di Glass si fonde con suggestioni metafisiche, tanto che le peripezie dell’uomo si riflettono nel mondo circostante (o forse sarebbe più giusto sostenere il contrario?) componendo una visione del reale in cui il confine tra microcosmo e macrocosmo risulta difficile da tracciare o anche solo da rilevare.

I boschi canadesi della Columbia Britannica e gli evocativi scenari della Terra del Fuoco, in cui il film è stato effettivamente girato, sono protagonisti della pellicola tanto quanto DiCaprio, Hardy e il resto degli attori in carne e ossa. Non si tratta di un mero vezzo estetico, di un esercizio di bravura manierista, ma di una vera e propria scelta narrativa.
Una possibile linea interpretativa del film è suggerita infatti dallo stesso Fitzgerald che racconta di come il padre, trovandosi in una condizione pedissequa a quella di Glass (aspetto ignorato dal personaggio, elemento che porta a una paradossalità marcata dalla narrazione, difficilmente ignorabile) e prossimo alla morte, si sia convinto di aver trovato di Dio in uno scoiattolo, poi ucciso e divorato. Il personaggio di Hardy non sembra comprendere pienamente il significato dell’esperienza paterna, in cui ritrova anzi una certa ironia, ma il tenore del suo racconto, per come è proposto dalla macchina registica, è accomunabile a quello di una parabola.
Si capisce quindi quanto The Revenant sia pervaso da una profonda spiritualità che influenza ogni immagine; una metafisica che ha le sue radici saldamente radicate nella terra: il riverbero di qualcosa di più che umano si manifesta attraverso la natura. Il mondo non è scollegato dall’agire umano: Glass rivive, nel bel mezzo delle sue fatiche, i momenti significativi della sua esistenza, riuscendo con grande sofferenza a ricollocare se stesso su un piano interpretativo più grande, non completamente sintetizzabile nell’evento contingente, ed è in grado di fare questo solo grazie ai segni che il mondo circostante gli fornisce passo dopo passo, ferita dopo ferita, sofferenza dopo sofferenza.

 

In un tale contesto vanno collocati gli scorci paesaggistici ostentatamente ricercati, i lunghi silenzi e i momenti apparentemente privi di azione scenica di cui Iñárritu si serve per raggiungere i suoi intenti. Il regista affronta la materia epica di petto, prendendosi maledettamente sul serio, senza concedere mai allo spettatore un attimo di levità.
Per questo, durante la visione la mente si ritrova a correre più in direzione de Il gladiatore di Ridley Scott (con cui, può sembrare strano, ma la pellicola ha più di un debito riguardo alle soluzioni narrative) o del Valhalla Rising di Refn (termine di paragone decisamente più azzardato ma che reputo condividere con The Revenant una ricerca costante della costruzione estetica del simbolo) rispetto a quella prossima a qualche canonico Western (a meno che non si voglia considerare il Dead Man di Jarmusch un western canonico, cosa che mi sentirei assolutamente di escludere).

As long as you can still grab a breath, you fight. You breathe. Keep breathing. When there is a storm. And you stand in front of a tree. If you look at its branches, you swear it will fall. But if you watch the trunk, you will see its stability.

Da un particolare snodo del film in poi, la figura di Glass si identificherà con il simbolo della spirale, sia tramite un rimando estetico/visivo, sia ai fini più strettamente legati all’intreccio. La storia della simbologia della spirale è così lunga e sfaccettata che le si farebbe solo un torto a riassumerla in poche righe in un simile contesto, ma è quantomeno suggestivo notare che una delle possibili sfumature acquistabili dal segno è riconducibile a un percorso di conoscenza che culmina con la percezione verso l’esterno di noi. La stessa alternanza sistematica tra il piano espositivo lineare, le visioni oniriche e gli scorci naturali, suggerisce una lettura del viaggio del protagonista come percorso di riconoscimento identitario: Glass comprende la sua natura in maniera direttamente proporzionale all’identificazione del suo posto nel mondo. Mondo esterno e mondo interiore si compenetrano, in un’ottica panica che sussume il particolare (l’individuo) al suo intero (il mondo).

Dal punto di vista tecnico, Iñárritu mette tutto il suo talento registico al servizio dell’intento narrativo: non viene ricercata l’inquadratura più chiara o più limpida ma quella più funzionale a comunicare un determinato sentire, una precisa condizione. Si tratta di una regia affettiva, emozionale, che il regista porta avanti coerentemente dal primo all’ultimo minuto.
Il lavoro svolto in sede di direzione fotografica è qualcosa in grado di lasciare letteralmente senza respiroEmmanuel Lubezki, due volte premio Oscar per la migliore fotografia (uno proprio per Birdman, sempre in coppia con Iñárritu) e sette volte candidato allo stesso, lavorando con la luce naturale (decisione che ha fatto impennare i costi di produzione), è riuscito a carpire la vitalità dell’elemento naturalistico. La leggerezza che il film perde in favore della gravità del racconto epico, viene recuperata attraverso il lirismo fotografico, che coinvolge lo spettatore visceralmente.
The Revenant è un film da vedere, nel senso letterale del termine, ancora prima che da seguire.
Tutto l’impianto tematico è veicolato, in prima battuta, proprio dall’immagine, sfruttando appieno la sua capacità evocativa. In passaggi come l’incontro tra Glass e l’enigmatica figura di un indiano Pawnee, che si preoccuperà di sfamare e rimettere parzialmente in sesto l’eroe, l’entità spirituale si mescola talmente tanto a quella materiale da dare vita a uno scenario quasi fantastico, fuori dal tempo e dallo spazio, reso con una semplicità disarmante, per la sua genialità, da una riuscita composizione di oscurità e fuochi.

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Completa il quadro la colonna sonora minimale di Ryūichi Sakamoto, che riesce intelligentemente ad integrarsi all’atmosfera generale, senza risultare mai invasiva. Pur trattandosi di epica, in questo caso un accompagnamento eccessivamente pomposo si sarebbe rivelato un tradimento dello spirito dell’opera; il compositore giapponese invece riesce nel non semplice proposito di supportare i suoni naturali, innestandosi comunque sempre sulla matrice delle scelte registiche. Il tema portante, pur nella sua compostezza e delicatezza, comunica tutta la struggente drammaticità del cammino di Glass.

Raccontare tramite le immagini. Usare i gesti, le azioni, i silenzi, i suoni, gli scorci, per narrare non solo una storia intesa come una serie di fatti consequenziali, ma anche una vita, un’identità, una visione del mondo, un modo di sentire.
Raccontare prendendosi tutto il tempo necessario.
Raccontare senza l’ansia di stupire a tutti i costi, senza essere vincolati da canovacci tesi unicamente al colpo di scena, senza la paura costante di perdere lo spettatore per la strada, con la consapevolezza che per godere di una bella storia bisogna essere perlomeno in due: uno con la voglia di raccontare e un altro con la volontà di seguire.

Questo è Revenant e, in fin dei conti, questo è cinema.

 

 

I Consigli del Martedì – The Revenant o l’epica di Iñárritu

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