Questa é la prima cosa in cui mi imbatto, appena metto piede nel Lingotto di Torino. Non ero mai stato ospite del Salone del Libro – per due o tre ragguagli in più sul Salto16 vi rimbalzo qui – e mi sarei potuto aspettare di tutto ma non di trovarmi davanti un drago. Il bello è che il lucertolone ronfante non è nemmeno l’incontro più weird fatto in fiera: nell’intricato dedalo di banchetti variopinti, sale dai nomi cangianti, castelli camuffati da stand (vero Newton?), simpatiche standiste, che poi quella di minimum fax è carina mica per ride’, bottiglie di vino che sbucano da ogni dove, nei modi più inaspettati. – Prima regola dell’editoria: bere. Sempre. Ovunque. Bere. Che lo facciano per dimenticare o meno poco importa, voi bevete. – e… ah sì giusto, c’è anche qualche libro, almeno mi pare. Comunque, dicevo che nel bel mezzo di questo viavai di gente con le shopper fighette girovaga un riccioluto, rampante, editor: Vanni Santoni, sparigliatore di carte ufficiale di un mercato editoriale che ha riservato più di una sorpresa, nell’ultimo anno.
Romanziere, montevarchino (tutti abbiamo dei difetti), raver, scrittore di fantasy in semi-incognito, giornalista che non ti aspetti di trovare sul Corsera e invece sta proprio lì, nel tempo (poco)libero Vanni fa anche l’editor e nello specifico è la mente dietro alla collana di narrativa della Tunué, che nell’ultimo anno ha fatto esordire un sacco di gente ganzabbestia, piazzando per giunta un titolo (e che titolo) direttamente nella lista dei dodici candidati al premio Strega. Vanni fa capolino nelle conferenze più disparate, passando da una discussione sul rapporto tra social media e informazione, insieme ad Alessandro Gazoia, alla presentazione di un tipo assurdo come Philip Ó Ceallaigh, la cui raccolta di racconti è da poco uscita per i ragazzi di Racconti Edizioni.
Riesco a braccarlo proprio tra un’apparizione e l’altra; mi premuro inoltre, per amore di voi inesistenti lettori, di sottoporlo a un piccolo interrogatorio, alludendo a una birra come ricompensa.
L’intervista la potete leggere di seguito mentre la birra non è mai arrivata.
Lo so, sono un uomo vile.
TNE – Con Tunué fino a ora hai pubblicato 8 titoli, l’ultimo presentato proprio qui in fiera. Pur con le loro palesi differenze e peculiarità, le pubblicazioni condividono dei percorsi narrativi: la tematica della memoria, in particolare il ruolo che hanno i ricordi per la costruzione dell’individuo e l’aspirazione metafisica, la tendenza a far collidere il piano corporeo con quello immateriale, sono elementi che ricorrono a più riprese; basti pensare a Lo Scuru di Orazio Labbate e A pietre rovesciate di Mauro Tetti per il primo caso e a Dalle Rovine di Funetta e Tutti gli altri di Francesca Matteoni per il secondo.
Sei d’accordo? Si tratta di una scelta voluta o solo di un particolare concorso di fattori?
VS – Mi sono proposto una cosa, lavorando a questi romanzi: la riconoscibilità della collana.
Non sono molto originale a dirlo, me ne rendo conto, però oh, le cose stanno così: in Italia si sovrapubblica. Escono troppi titoli e non si ha nemmeno modo di notarli in libreria che questi, puf!, già spariscono in rese. Allora, piuttosto che puntare alla singola ‘botta di culo’, concentrandoci sul singolo libro come fosse un’isola indipendente, abbiamo preferito lavorare sull’identità della collana, a partire dal formato, dalla grafica e anche dal prezzo, ma soprattutto – spero – nella qualità letteraria dei libri.
Questo non vuol dire uniformare le voci: si tratta piuttosto di dare un’impronta, marcare le pubblicazioni in modo che il lettore capisca di trovarsi davanti a un progetto, allo sviluppo di un’idea. Per me la riconoscibilità di una collana é importante e credo ci sia ancora tanto da lavorare, nel nostro mercato, da questo punto di vista.
Per quanto riguarda le mie scelte: il primo fattore che valuto è la lingua. I romanzi che pubblichiamo non solo devono essere scritti bene, quello mi pare il minimo, ma devono essere il frutto di un lavoro sulla ricerca della lingua adatta alla narrazione specifica dell’oggetto trattato: un romanzo veramente buono difficilmente prescinde da ciò. Mi interessa la ricerca della buona prosa, anzitutto, e poi di una voce, di una lingua adatta a raccontare, e su quello mi spendo molto insieme agli autori, oltre che sui grandi temi dei loro romanzi e sula struttura, anche facendoli lavorare molto ”di tornio” per far venir fuori meglio la loro lingua.
È vero che negli otto romanzi si possono tracciare linee di ricorrenza di certe tematiche, penso ad esempio al rapporto col territorio che si ha, sebbene declinato in modi del tutto differenti, in Dettato e in A pietre rovesciate; al tema della fuga e del conseguente viaggio picaresco che si trova in Stalin+Bianca e Mescolo tutto, due libri che dal punto di vista della trama hanno vari aspetti speculari; al tema della memoria e dell’infanzia presente in Tutti gli altri, nello Scuru e nello stesso Dettato; alle trame sotterranee presenti a loro modo nell’Appartamento e in Dalle rovine… Ma è anche vero che io lavoro con i manoscritti che mi giungono in redazione, che mi vengono consigliati da agenti o colleghi scrittori, o ancora invitando a scrivere un romanzo autori che scovo in giro per riviste letterarie, attenendomi al solo principio di qualità. Non scelgo i libri in base ai temi, li scelgo in base a come sono scritti. Tuttavia è vero che il ”pool” da cui attingo, costituito per lo più da esordienti, afferisce a una certa generazione, gente nata tra la metà degli anni ’70 e la fine degli ’80, con l’eccezione di Incretolli che è del ’94, e non è impossibile che ci sia una sorta di sentire comune, di temi ricorrenti a livello generazionale. Ti faccio un esempio: non ho dato nessuna indicazione e di certo non mi sono fatto condizionare da nessuna interpretazione particolare relativa alla figura del padre, eppure, se ci facciamo caso, il padre, in tutti i romanzi che abbiamo pubblicato, è un personaggio caratterizzato negativamente, completamente assente o trasfigurato in personaggi o elementi simbolici perturbanti. Guardando la cosa da questa prospettiva verrebbe da pensare che lo si sia voluto fare apposta; invece, non essendo ovviamente così, deduco piuttosto che ci sia una sorta di ‘questione paterna’ aperta tra gli scrittori dell’attuale generazione e che questi romanzi non hanno fatto altro che captarla.
TNE – Visto che hai tirato fuori la questione della lingua: che rilievo dai al dialetto, quando valuti i testi arrivati in redazione?
In romanzi come Lo Scuru il dialetto è uno dei protagonisti del racconto, ma anche Tetti, in A pietre rovesciate, di fatto si basa sul dialetto sardo per creare una nuova lingua narrativa.
VS – Non ho nessun pregiudizio positivo o negativo, o tantomeno strategia, riguardo l’uso del dialetto. Il fatto è che sono interessato a una lingua usata per dire il vero, anche e soprattutto quando si parla di sé, e quindi in Italia può capitare abbastanza di frequente di incappare in romanzi che usano anche il dialetto, visto che è una componente ancora piuttosto forte dei ”parlati di strada”. L’Italia è formata da un mosaico di realtà regionali; è naturale che il dialetto, la prima lingua con cui si viene in contatto, una lingua materna, riecheggi in romanzi, come Lo Scuru e A pietre rovesciate, intrisi di ricordi o esperienze legate all’infanzia. In effetti ripensandoci a volte emerge anche in Dettato. Sono assolutamente favorevole all’uso del dialetto quando é giustificato all’interno della narrazione, non lo concepisco invece come semplice orpello o vezzo stilistico. Per quanto riguarda A pietre rovesciate, perché non chiedi direttamente a Tetti?
Proprio in quell’istante, appare un Mauro Tetti selvatico davanti a noi! Non mi faccio sfuggire l’occasione e mi getto all’attacco lanciando la mia sfera poké:
TNE – Che tipo di approccio hai avuto per A pietre rovesciate, come è uscita fuori questa lingua ibrida dal sapore dialettale?
MT – Ciao. Ma, tipo, chi sei?
VS – No, no, tranquillo. È un’intervista.
TNE – C’è la possibilità dopo scappi una birra. Non è una certezza, ma esiste questa eventualità.
MT – Ah, se c’è una birra di mezzo, allora…
Quello che ho cercato di conservare è la musicalità del dialetto. Il libro è composto dalle fiabe della tradizione sarda, il recupero del dialetto è stato naturale perché mi sembrava il modo più adatto a serbare il carattere peculiare di queste storie. Volevo ricreare l’effetto musicale della mia lingua, giungere a una scrittura il più vicina possibile al racconto orale.
VS – Ora che hai sentito che non dico boiate, sei felice?
TNE – Abbastanza.
Però tutto questo mi ha fatto venire in mente un’altra domanda, dopo giuro che vi libero: dato il successo della collana e il buon riscontro di pubblico dei romanzi, come pensi che proseguirà il lavoro insieme agli autori?
Visto che si parla di esordienti, c’è modo di intraprendere un percorso di crescita insieme a loro e soprattutto sarebbe bello che la collana, insieme a Tunué, diventasse un po’ un laboratorio creativo da questo punto di vista.
VS – Ti posso rispondere che mi piacerebbe molto tenere i miei autori, ma so anche che è normale che un esordiente che ha un buon successo critico e di pubblico diventa immediatamente un boccone pregiato per le major. Sono felice del lavoro che abbiamo fatto fino a ora e mi fa una strana impressione, in questi giorni, sentire Tunué accostata a realtà come minimum fax, Marcos y Marcos o E/O. Queste sono case editrici che stimo enormemente e che hanno avuto modo di crescere nel corso di anni: noi invece, per quanto concerne la narrativa, siamo nel giro da poco e non era scontato aspettarsi un successo, anche di critica, così repentino. Magari riuscire a continuare a fare bene per periodi lunghi quanto la storia di quelle case editrici… Quindi sì: ci fosse la possibilità certo che proseguirei volentieri il lavoro con gli autori che abbiamo pubblicato. Però ci sono delle esigenze, sia dal punto di vista dell’editore che da quello degli autori, e non posso dire con certezza cosa succederà in futuro. Tunué può permettersi un certo tipo di spese, adeguate alla sua attuale dimensione e alla condizione precaria del mercato, e se ai miei autori arrivano offerte dalle case editrici più grandi li capisco benissimo se se ne vanno. Se si vuole fare davvero lo scrittore di mestiere, del resto, arrivare a pubblicare con le grandi è essenziale, sia per gli anticipi che per il tipo di collaborazioni a cui si può avere accesso. Certo, nel frattempo anche noi cresciamo, tant’è che iniziano ad arrivare manoscritti da gente che ha già pubblicato con ottime case editrici, ma la strada è ben lunga anche solo per arrivare al livello di stabilità e spazio sul mercato delle succitate ”medie di qualità”. Si vedrà, su.
… oh, avevi parlato di una birra no? Io c’avrei anche sete…
TNE – Guardate: il drago si è mosso!
Il trucco più vecchio del mondo, ma funziona sempre. Dileguarsi nel tafferuglio intellettualoide è poi uno scherzo, mi basta prendere qualche svincolo in ordine casuale. Il ritrovo con gli altri era sotto la G o la P? Vabbe’ l’importante è che sia riuscito a portare a casa l’intervista senza spendere il becco di un quattrino oltre che sano e…
TNE – Oh. Ciao bello…
Drago – (sbuffa)
TNE- … non è che ti va una birra?
Pingback:Su @La_Lettura + un’intervista @tunue @nerdexperience | sarmizegetusa