Ci sono vari modi per scrivere una storia efficace, ma per scrivere una storia che resti dentro anche a distanza di tempo bisogna che questa contenga un elemento che tocchi lo spettatore nel profondo, che sembri parlare proprio a lui, quando invece sta parlando a un’intera generazione. Questo accade – se accade – quando un’opera contiene l’esprit du temps, lo spirito del proprio tempo.

Intorno al 2008, quando è cominciata la nuova epoca delle Serie TV, capitanata dal fantapremiato Breaking Bad, l’argomento d’interesse era il male.
La crisi economica, la sfiducia in un sistema governativo obsoleto, la disoccupazione giovanile e un certo cinismo scettico e sfrontato dilagante contribuito dalla necessità di like facili su Facebook, aveva portato la mia generazione a vedere il mondo come una mela marcia e inaffidabile, così da convincerci che la soluzione migliore fosse un’individualismo sfrenato ed egocentrico, sintetizzabile nel motto scarfacianoThe World is Yours.

Il dirigibile che ispira Tony Montana in Scarface: “Il mondo è tuo, vattelo a piglia’…”

Ecco quindi il proliferare di serie ad alto contenuto di dramma, spaccio e pistole: il già citato Breaking Bad, The Wire, Romanzo Criminale, Narcos, Gomorra, persino quella che tutti considerano la versione comica di Breaking Bad, Weeds, dimenticandosi che è stata prodotta nel 2005, mentre BB è del 2008.
Raccontare la ricerca della felicità ad ogni costo era il tema portante delle serie di quell’epoca (che poi sono solo 8 anni fa!), persino una serie intellettuale e raffinata come Mad Men ci parla di questo; il protagonista, Don Draper, arriva a crearsi una nuova identità pur di raggiungere il suo sogno di felicità.

Ehi bello, sono gli anni ’60!

Il fascino del male non si scopre certo adesso e non a caso il volume più letto della trilogia dantesca è l’Inferno. Quel che però il male ci ha lasciato è un profondo senso di vuoto e di tristezza.
Inseguire il benessere personale ad ogni costo, rinunciando ad ogni affettività, ci ha rinchiusi in una bolla di egoismo e ambizione; i nostri obiettivi si sono fatti sempre più ambiziosi e ciascuno – per se stesso – pretende traguardi semplicemente irrealizzabili. Non è cinismo ma statistica affermare che di Wolf of Wall Street ce ne può essere uno solo, o comunque molto pochi, eppure il progresso e l’accessibilità dell’istruzione alla maggior parte della popolazione hanno reso naturale – e legittimo – aspirare alla vetta. Questa contraddizione sfocia in un’inevitabile senso di frustrazione e di aspettative non mantenute drasticamente la famosa la crisi di mezza età.
La fascia tra i 25-30 anni (di cui faccio parte) ha anticipato i dubbi e lo sconforto dei cinquantenni di appena 25 anni. Il livello di conoscenza e di esperienza acquisite dai miei coetanei è infatti per forza di cose maggiore a quello dei nostri genitori, ma una così alta ricezione unita al martellamento mediatico e a una politica percepita come fasulla e distante crea sconforto, e lo sconforto prolungato nel tempo può sfociare solo nella depressione.

Gli strascichi del male, inteso come successo ad ogni costo

Tutto questo non dev’essere sfuggito a Raphael Bob-Waksberg, l’autore di Bojack Horseman, la serie originale Netflix che più di tutti e meglio di altri parla di depressione.

In questi due anni, per motivi di sollazzo mascherati da doveri professionali, ho visto una quantità di Serie TV esorbitante. Mi capita spesso che le persone mi chiedano consigli oppure quale serie mi sia piaciuta di più. Di norma mi strappo il cuore dal petto e urlo Sons of Anarchy o un poppettaro Mr. Robot; ma c’è sempre un tarlo che mi rode dentro, c’è sempre una voce baritonale e roca che mi sobilla:«What? Are you Horsin’Around?».
È la voce di Will Arnett (protagonista e ideatore di Flaked, altra serie originale Netflix) e mi ricorda che nel mio cuore seriale c’è una stanza occupata da un cavallo narcisista ed egocentrico difficile da ignorare.

<3

Charlie Rose: In 1987, the situation comedy Horsin’ Around premiered on ABC. The show, in which a young, bachelor horse is forced to reevaluate his priorities when he agrees to raise three human children, was initially dismissed by critics as “broad” and “saccharine” and “not good”. But the family comedy struck a chord with America and went on to air for nine seasons. The star of Horsin’ Around, BoJack Horseman, is our guest tonight. Welcome, BoJack.
BoJack: It is good to be here, Charlie. Sorry I was late. The traffic…
Charlie Rose: It’s really no problem.
BoJack: I parked in a handicapped spot, I hope that’s okay.
Charlie Rose: You parked in a—?
BoJack: I’m sorry, disabled spot. Is that the… proper… nomenclature?
Charlie Rose: Maybe you should move the car.
BoJack: No, I don’t think I should drive right now. I’m-I’m incredibly drunk.
Charlie Rose: You’re telling me that you’re drunk right now?
BoJack: Is it just me, or am I nailing this interview? I kind of feel like I’m nailing it.
Charlie Rose: Yes. Anyway, we were talking about Horsin’ Around. To what do you attribute the show’s wide appeal?
BoJack: Charlie, listen, y’know, I know that it’s very hip these days to shit all over Horsin’ Around, but at the time, I can tell you— Is it okay to say “shit”?
Charlie Rose: Please don’t.
BoJack: ‘Cause I— I think the show’s actually pretty solid for what it is. It’s not Ibsen, sure—but look, for a lot of people, life is just one long, hard kick in the urethra. And sometimes, when you get home from a long day of getting kicked in the urethra, you just want to watch a show about good, likeable people who love each other. Where, y’know, no matter what happens, at the end of 30 minutes… everything’s gonna turn out okay. Y’know, because in real life… Did I already say the thing about the urethra?
Charlie Rose: Well, let’s talk about real life. What have you been doing since the show’s cancellation eighteen years ago?
BoJack: That’s a great question, Charlie. I, uh… Uh, I… Ummm…

BoJack Horseman è un cavallo antropomorfo, ex star di una sit-com molto popolare negli anni ’90, seppure di qualità scadente. Vive a Hollywoo (Hollywood, fino a che qualcuno non ha rubato la “D” dalla celebre collina) dove passa le sue giornate a bere alcool, drogarsi e guardare puntate del suo vecchio show: Horsin’Around.
BoJack voleva di più per se stesso, voleva essere un grande attore, popolare e amato, ma proprio il suo desiderio narcisistico di affetto l’ha portato a commettere errori terribili, preferendo l’amore illusorio del pubblico a quello di chi davvero lo amava. Oggi è solo, depresso e con un ventenne fannullone che gli dorme sul divano. La Penguin Books (deliziosamente diretta da un pinguino) gli ha proposto l’occasione di tornare alla ribalta: scrivere un’autobiografia. È l’opportunità che BoJack aspettava da sempre: poter dire la sua, senza filtri, e farsi amare da tutti, non per quello che è ma per quello che vorrebbe essere.

BoJack ha indicativamente 50 anni, è in piena crisi di mezza età, eppure il suo bisogno d’attenzione, l’egocentrismo e una visione cinica e disillusa della realtà lo rendono simile (e infatti amato dagli stessi) a un venticinquenne.
BoJack non è il semplice potrebbe ma non si applica e neppure un si applica ma in modo sbagliato (cosa che ha fatto in passato però) è piuttosto un rinuncio ad applicarmi anche se vorrei. BoJack desidera ardentemente di essere una persona migliore ma qualcosa dentro di lui lo frena, è come un ingranaggio rotto che non riesce a ripararsi.

Eppure alla mancanza di ottimismo e di speranza fa da contraltare un’insospettabile voglia di vivere: quando BoJack si trova in pista balla, a modo suo balla, sempre.

Tutto questo può portare a pensare di essere di fronte al classico cartone animato americano a struttura verticale, come i Simpson o i Griffin; c’è una situazione di tranquillità iniziale che viene turbata da un evento esterno e la puntata si conclude tornando all’equilibrio iniziale. Questa struttura effettivamente si riproduce nei primi episodi (sia nella prima che nella seconda stagione) che funzionano però da setting per la seconda metà della stagione dove invece vengono sviluppate trame orizzontali che portano a rivelazioni su traumi passati o a intriganti svolte.

Voce del verbo: calci nelle palle.

BoJack Horseman è uno show comico e intelligente che unisce giochi di parole, allegorie uomo/animale a profonde riflessioni sulla società e sulla vacuità dello Star-System: dietro la patina dorata, persino quella doratissima della vita di una (ex) star, si nasconde un grande dolore. Bojack Horseman è esattamente quello che sarebbe successo a Walter White o a Tony Montana se non fossero morti: tutto quel successo e tutto quello sforzo per l’inseguimento di un sogno e di un apparenza non lasciano niente, se non l’agrodolce ricordo delle imprese passate e quel senso di vuoto che sfocia in depressione.

Perché allora BoJack, un cinquantenne depresso, è lo specchio ideale dei millennials?
Perché BoJack, nei rari momenti di onestà, accetta l’idea di essere nato rotto e che la tristezza e il dolore sono parti della vita che vanno accettate e comprese, e non accantonate in favore di una gioia effimera comprata su Amazon.
Esattamente quel genere di messaggio alla base di Inside Out, il pluripremiato film della Pixar.

BoJack vive schiacciato tra il desiderio di una vita migliore e il dovere di perseguire un modello di felicità imposto dall’esterno. Riconosce l’immagine del successo e dell’ambizione come effimera, eppure si sente obbligato a perseguire quel cammino proprio perché ne ha i mezzi e le possibilità.
Il paradosso dei millennials, che aspirano a qualcosa di più che stappare champagne su uno yatch in cui già sanno non esserci posto per tutti, ma, non trovando alternative, si ritrovano in coda all’inaugurazione di Abercrombie a scattare un selfie all’uscita, con il modello pompato.

 

 

Netflix Watcher: BoJack Horseman e l’esprit du temps

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