«Eravamo ragazzi Dylan… A quell’età tutto è importante, e niente conta davvero»
Marina Kimball

Quanto può essere doloroso dire addio a se stessi? Confesso che ci ho messo quasi dieci anni a capire davvero Il Lungo Addio, numero 74 di Dylan Dog, che prende in prestito dal celebre romanzo di Chandler il titolo. L’ho capito ieri pomeriggio, verso le quattro; poi ho pianto.

Quel numero, acclamato da critica e lettori in egual misura e giustamente entrato tra i “classici” dell’Indagatore dell’Incubo, è stato sceneggiato da Sclavi nel 1992 per le matite di Carlo Ambrosini su soggetto di Mauro Marcheselli.
La trama è semplice: una sera qualunque, una donna suona al campanello di Dylan. La donna è Marina Kimball, amore giovanile dell’indagatore, conosciuta vent’anni prima nel paesino di mare immaginario di Moonlight. Marina non si ricorda come sia finita a Londra, ma chiede al nostro di accompagnarla a casa. Comincia così un viaggio onirico lungo un’autostrada mai vista che ripercorre il passato della coppia.

Questo episodio è da sempre uno dei più amati dai fan, al di là della qualità, perché svela alcuni particolari del passato di Dylan, fino a quel momento soltanto accennati in alcuni e sporadici numeri.
Nel #74 il lettore scopre che la famiglia di Dylan non era molto ricca; che almeno da ragazzo non vestiva in camicia rossa e giacca nera; come è entrato in possesso della sua pistola e, soprattutto, quando e perché ha deciso di fare l’Indagatore dell’Incubo!

Taglio hipsterissimo per Dylan, fra l’altro.

Questa storia rappresenta un caposaldo della narrativa dylaniana; Per quel che mi riguarda si può addirittura annoverare fra le migliori mai scritte a livello mondiale, e rappresenta quel genere di racconto a più livelli di cui si scopre una nuova interpretazione a ogni rilettura col passare dell’età, come per esempio il Giovane Holden o, per quelli che hanno letto un libro solo in vita loro, il Piccolo Principe.

Dal 22 luglio 2015, Sergio Bonelli Editore in collaborazione con la Gazzetta dello Sport ha lanciato Dylan Dog: i colori della Paura.
La collana, settimanale, propone una ristampa integrale di tutte le storie apparse nei vari Dylan Dog: Color Fest. Si tratta di piccoli volumi di trenta pagine ciascuno, che hanno attirato fin da subito la mia attenzione con il primo volume, inedito. Ma non un inedito qualsiasi, bensì un remake del primo, storico, numero di Dylan Dog, L’Alba dei Morti Viventi, riscritto da Roberto Recchioni (la mano longa dietro alla nuova vita editoriale dell’indagatore).
Per la cronaca il Rrobe se l’è cavata molto bene, ma il punto è che fatto un inedito il pubblico se ne è aspettati altri, e col numero 31 così è stato. Stessa formula, stesso successo; stavolta il remake è toccato – l’avrete capito – a Il Lungo Addio.

Ai testi Paola Barbato, ai disegni Carmine Di Giandomenico, il tandem che raccoglie il testimone di Sclavi e Ambrosini.
Recchioni per il suo remake aveva scelto di cambiare il punto di vista del racconto, il protagonista non è Dylan ma un oggetto (si evitano spoiler quando si può), Barbato fa un processo diverso ma ugualmente efficace: riempie i vuoti narrativi dell’originale.
L’effetto che crea la sceneggiatrice è quello di un arricchimento, un processo insolito e contrario alla natura di Dylan, un fumetto che di vuoti e non detti ha sempre fatto la sua forza.
La trama si addentra molto di più nelle vicende moonlightiane, mostrando un po’ di più l’amore e i battibecchi tra Dylan e Marina.

Se l’argomento è quello dell’adolescenza, del ricordo e del prima amore, il tema è più sottile e la Barbato non se lo lascia scappare.
Marina non è semplicemente il primo amore di Dylan, né un frammento del suo passato, è il suo passato. Marina e Moonlight rappresentano la giovinezza di Dylan, quel crocevia della vita di Dylan tra il momento in cui si è dei bambini spensierati, ingenui, ma pieni di sogni e per questo autentici; e il momento della crescita, dell’età adulta e dei compromessi, tanto con la società quanto soprattutto con se stessi.
Dire addio a Marina, quel lungo e ventennale addio, è in realtà l’ultimo saluto alla parte più autentica dell’individuo, l’ultima volta che si è stati integri e fragili allo stesso tempo.

Ancora un lungo addio è l’equivalente di una martellata sul cuore, proprio nel punto dove si è spaccato la prima volta, quel punto che non si è mai rimarginato e che ha dato origine a ciò che siamo oggi; quel punto che dopo tanti anni ci fa sorridere e pensare “com’ero ingenuo”, quando in realtà stiamo mascherando la nostalgia per quel momento in cui tutto era ancora possibile e noi eravamo ancora veri.

Già.

Un remake riuscito, in cui Barbato riesce a regalare nuove “perle” che si incastrano perfettamente con quelle del maestro Sclavi, e dove Di Giandomenico affresca tavole di straordinaria bellezza, in grado di restituire la freschezza di una brezza estiva che ci accarezza seduti su uno scoglio in riva al mare.
Un classico al pari del classico, nonostante non abbia apprezzato l’eccessiva fisicità del giovane Dylan (qui l’influenza americana si sente) né la scelta di giustificare la non-risposta di Marina al protagonista sul treno (che fatica ‘sti spoiler!), inserendo un fatto inedito, decisamente risparmiabile.

In ogni caso, ancora una volta:

«Ciao Dylan… E grazie… È stata la notte più bella della mia vita.»
«Anche per me.»

 

Dylan Dog: Ancora un Lungo Addio

Un pensiero su “Dylan Dog: Ancora un Lungo Addio

  • 7 Luglio 2016 alle 16:21
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    La pelle d’oca.. (con la prima versione della storia…)
    Quella nuova non l’ho ancora letta.

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