Esiste una corrente di pensiero che vorrebbe fare di Momoru Hosoda l’erede naturale di Hayao Miyazaki.

Per quanto non veda di buon occhio la tendenza a voler forzatamente trovare epigoni dei maestri di un settore (soprattutto quando questi sono sempre vivi e vegeti) è indubbio che Hosoda, ai tempi selezionato proprio dallo studio Ghibli per dirigere Il castello errante di Howl poi allontanato per incomprensioni artistiche, condivida con Miyazaki la capacità di parlare a un pubblico sfaccettato, mescolando in egual misura influenze di matrice orientale e occidentale.

The Boy and The Beast, il suo ultimo lungometraggio prodotto con lo studio Chizu, rielabora elementi della tradizione nipponica con un linguaggio accessibile al grande pubblico, certificando quest’abilità.

Ren, ragazzo di nove anni orfano di madre e abbandonato dal padre, si ritrova a vagare per i vicoli di Shibuya dopo essersi rifiutato di vivere con le persone a cui era stato affidato in custodia.

Incuriosito dalla figura di uno strano individuo incappucciato e senza nessun posto in cui potere fare ritorno, decide d seguire lo sconosciuto fino a varcare inavvertitamente la soglia che separa il mondo degli uomini dal regno delle bestie. Il misterioso incappucciato infatti altri non è che Kumatetsu, scontrosa e irruenta figura, dall’aspetto simile a quello di un orso, destinato a gareggiare con il leale Lôzen per la carica di Signore del regno. Dopo un breve periodo di reciproco studio, Kumatetsu accetterà Ren, ribattezzato Kyuta, come suo primo allievo.

Basta leggere queste poche righe riassuntive per rendersi conto che la trama poggia su un canovaccio e tematiche consolidate:la materia di base è la figura dell’outsider, l’incompreso; colui che si ritrova, per un motivo o per un altro, rifiutato dalla stessa società in cui vorrebbe essere accolto.
Ren decide di voler a ogni costo diventare discepolo di Kumatetsu, nonostante il caratteraccio del combattente, quando si rende conto che i due condividono una condizione simile: accompagnato solo da Hyakushūbō e Tatara, i suoi due compagni dall’aspetto, rispettivamente di maiale e scimmia (il rimando a Il viaggio in Occidente, uno dei classici della letteratura cinese, è abbastanza evidente), Kumatetsu vive solo, evitato da tutti, in un paese che, pur non formalmente, ha già virtualmente trovato in Lôzen, l’onorevole cinghiale dal vello dorato, il suo ideale condottiero.

Hosoda, rispettando pedissequamente le linee tracciate da Joseph Campbell nel suo Eroe dai mille volti, dà inizio all’avventura del suo eroe con un primo, simbolico, atto su cui la regia indugia con significativa decisione: il superamento della soglia.

Per conoscere se stesso, formare la propria personalità, Ren è costretto prima a uscire fuori, scontrarsi con il mondo, affrontare l’ignoto e il bestiale (qui nel senso letterale del termine) in modo da essere poi in grado di tornare nel mondo armato di nuova consapevolezza. In maniera simile, Kumatetsu, negli inediti panni di maestro, scoprirà insospettabili aspetti del proprio carattere, tanto che viene spontaneo domandarsi chi stia realmente insegnando a chi.

In The Boy and The Beast non c’è volutamente nessun elemento originale, ma si tratta piuttosto di un’interpretazione conscia, interiorizzata e ottimamente narrata dello Shonen, il genere di manga e anime pensato per un pubblico adolescenziale. L’ignoto, l’avventura, la comprensione di sé, sono i cardini del genere, e il regista, pur insediandosi saldamente nel solco della tradizione, riesce a fornire una sua (definitiva?) versione, concentrandosi, con meticolosità, sulla costruzione di personaggi credibili, senza rinunciare a nessun passaggio tipico di questa tipologia di storie: la scoperta di mondi sconosciuti, gli allenamenti, i sacrifici, i riscatti, il rivale.

In particolare, per quest’ultimo è necessario spendere qualche parola di più. Ichirohiko è il preciso corrispettivo di Ren: orfano umano, allevato da Lôzen con le migliori intenzioni, finisce per accettare completamente la natura bestiale rinunciando alla parte umana, diventando così completamente preda delle sue ossessioni.

Ispirandosi a al personaggio del Capitano Achab e a Moby Dick, con ripercussioni estetico-stilistiche notevoli (vedere per credere), Hosoda concentra in 120 minuti ciò che Naruto ha impiegato diverse serie televisive a raccontare nel rapporto tra Naruto e Sasuke: sempre partendo da oliati meccanismi (il riflesso, lo specchio, luce e ombra), il regista imbastisce una relazione credibile, oltre che funzionale alla storia.

Purtroppo, nelle battute finali, The Boy and The Beast si perde un po’ in un bicchiere d’acqua, mancando il guizzo che lo avrebbe elevato a nuovo istant classic, eccedendo con il “buonismo” a tutti i costiscoprendo così qualche ingenuità di troppo e, forse, ancora una non piena maturazione stilistica. Da questo punto di vista, i capolavori di Miyazaki si mantengono lontani.

Nonostante qualche incertezza nell’epilogo, The Boy and The Beast riesce a concentrare, nello spazio di un film, materiale narrativo che sarebbe potenzialmente bastato a un’intera serie animata televisiva.

Hosoda scrive e dirige il suo personale shonen, dando prova di una metabolizzazione profonda delle strutture del genere, riuscendo inoltre a imprimere nella produzione un innegabile carisma, nonostante la scelta di mantenersi completamente nei binari della classicità.

Non so se si possa parlare o meno di erede di Miyazaki, ma di sicuro non è sbagliato parlare di regista di talento.

 

I Consigli del Martedì: The Boy and The Beast

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