Corale Greca
La Grecia ha fornito alla nostra cultura, nei millenni, i prototipi dell’universale umano, le storie che dicono le nostre storie, tanto che al mito si dà la dicitura bellissima di “cose che mai furono e che, pure, sono sempre”.
Beatrice Masini qui non canta la guerra, né l’ira che fa dire cose sciocche.
Corale Greca non è canto di eroi, ma di voci inascoltate, quelle delle numerosissime donne che popolano la mitologia Greca: maghe, ninfe di bosco o di mare, principesse, indomabili dal cuore rosso – magari mutate in leonesse – selvagge, coraggiose, assassine…

Che cosa sognavano da piccole
com’erano da ragazzine
che cosa volevano diventare
io dea io mercantessa io oratrice nella piazza di Atene
io scultrice io navigante
tutte cose impossibili

Octavia Monaco, Ecuba
Octavia Monaco, Cassandra

Diciannove voci di donne che la letteratura greca – che ha contenne il germe della modernità – ha dorato di immortalità, ascendendole ad archetipo. Alcune sono nostre intime; altre immeritatamente neglette; altre, ancora, inventate. La Masini mitiga l’efferatezza di alcune tematiche – con che mano delicata è tratteggiata la Fedra! –, o lascia che il tragico, crudo, resti intatto, come per Ecuba “Capo Cagna”. E su tutto l’occhio del Dio o la sua mano che prende, gioca, fa trastullo dell’uomo sprigionando sentimenti involuti – ma il Dio non è, forse, l’Inconscio?
L’attinenza alla materia mitica è estrema, data da devozione profonda e da una manipolazione “in punta di dita” che riesce ad avvicinare femmine misteriche, quali l’Alcesti – la più ambigua delle tragedie euripidee: basti pensare ad Alcesti Velata del Kott -, alla donna contemporanea e alle sue odierne afflizioni; è anche il caso dell’Antigone, declinata ossimoricamente in sovversiva – ancora, ché inobbediente alle leggi del piccolo Creonte – e pacifista – “Io obbedisco solo alle leggi dell’amore. Esisto per amare, non per odiare.”
Questo, senza deporre la parola colta, altrimenti detta sacra, o la suggestione data dal linguaggio lirico e ricco, che ha vocazione poetica e valenza da laude, malgrado il pubblico di riferimento sia acerbo – se la scelta di molti è accomodante, in tal senso, quella dell’autrice è ardita, doverosa, e rende giusto merito alla materia trattata.
Beatrice Masini cominciò a scrivere Corale Greca nel 2001, per il progetto Sirene (EL Edizioni) che, in avanguardia rispetto alle pose femministe di oggi, riscopriva le donne che compiono scelte difficili sapendo portarle fino in fondo, come Mata Hari, Artemisia Gentileschi o Cleopatra. Le donne greche, alcune silenziose, altre fiere, altre rissose, hanno i mezzi per affermarsi, anche se secoli di soliloquio maschile le ha silenziate: perciò la scelta di dar loro, finalmente, voci, e diversificando – prima persona; terza persona; dialogo; monologo –, e sfalsando i piani di lettura, alternando passi più semplici, come l’incontro fra Odisseo e Nausicaa reso in forma dialogica e non-commentata, a strutture più dense, necessarie a dipanare, ad esempio, l’inquietante trama dell’omicidio di Clitemnestra, o dell’infanticidio della Medea, condannata dall’essere maga che, per l’autrice, è “sentire di più“. Le voci fanno ritorno al silenzio con Zenaide, panettiera del porto di Atene, l’unica inventata delle diciannove donne che parlando giustifica l’intera Corale innescando uno svelto parallelismo fra l’arte di fare storie e quella di panificare, e suggerendo che la storia, il racconto, è mezzo di appropriazione, di crescita.
Zenaide vende il suo pane, tutto quello che ha, concludendo il tempo della storia ma è ancora affamata di parole, necessarie alla sazietà quanto quello che vende.

Sulle Illustrazioni
Octavia Monaco, nata in Francia nel 1963 da padre italiano e madre spagnola, si è formata nel settore orafo; profondamente affascinata dal fiabesco e dalla pittura, si è dedicata all’illustrazione da autodidatta, iscrivendosi nel 1991 all’accademia delle belle arti di Bologna, che abbandona dopo un anno di frequenza per intraprendere un percorso di ricerca personalissimo, interamente dedito alle paste del colore, e vertente sul linguaggio contemporaneo. Miti e fiabe sono per lei opportunità d’attinzione a una poetica intima, intrisa di sogni e nostalgie. Da qui il vezzo del fregio, e una certa inerzia che ha gusto di simbolo. L’onirismo evocativo delle illustrazioni, inoltre – la sua Cassandra, cui il dio mette gli occhi, ma mura la bocca; Ismene sorella-cane; Medea fagocitatrice maestosa, dagli occhi vacui –, dà luce a un linguaggio d’immagine vibrante di lirismo che perfettamente sposa quello delle Voci. 

Per mano femminile, uno scorcio su Fedra
“Ma è Fedra che prima di Isotta e come Isotta, rappresenta l’eros allo stato puro, quello che riflette la gratuità, casualità e arbitrarietà di ogni innamoramento. Nel tempo viene eliminata ora la vendetta è il suicidio di lei, ora la morte di Ippolito e perfino, a volte, la ripulsa di lui, ma il nucleo irresistibile del mythos è che Fedra si è innamorata di chi non doveva.”
Queste eroine dalle molte vite e dalle molte morti hanno sempre avuto voce maschile.
Così Margherita Rubino, nel suo saggio sulla figura di Fedra:
Per una versione cinematografica di Antigone dovuta alla regista Liliana Cavani (I cannibali, 1971) o per una Medea romanzata e “sbiancata” da Christa Wolf (Medea, voci, 1996) stanno decine e decine di capolavori dovuti, per tutto il XX secolo, e da duemilaquattrocento anni a questa parte, a mano maschile. È la norma.”
L’unica eccezione fu Fedra.
Censurata, e quindi ammutita da Euripide; trascorsi cinque secoli riscattata alle proprie ceneri, di passione furiosa, da Seneca che la fa senza Dei, presa dal sentimento come dall’estro, Fedra diviene il mito occidentale di amore e morte più importante, assieme a Isotta – entrambe accese dal fuoco, involontario, involuto, irreversibile, dell’amour fou; entrambe ratte dalla potenza dell’Eros, coadiuvata dall’ambiente repressivo e strangolatore di impulsi.

George Barbier, Fedra e Ippolito


Da Seneca segue una serie di rifacimenti – menzione e storia di Fedra compaiono agli albori della letteratura inglese, nel poema The legende of goode women (1385) di Geoffrey Chaucer (vv.1970-85 e vv. 2169-78); nel 1601 un caso curioso per mano di Bernardino Stefanio, gesuita, che scrisse in latino il Crispus rimodellando sulla famiglia dell’imperatore Costantino, padre di Crispo, la vicenda senecana –, culminante con la Phèdre di Jean Racine (1677). Questi, i tre modelli cui si volge l’imitatio moderna, tra XVII E XXI secolo. Dal Racine discende la versione di Schiller (1805); tra i primi rifacimenti del Ventesimo Secolo, invece, quello di Gabriele D’Annunzio (1909), nato come libretto di un’opera musicata dal Pizzetti (1915), e uan Fedra di Miguel de Unnamuno (1910); vi è, poi, l’ossessionata, farneticante, serratissima Fedra di Ghiannis Ritsos (1978), che, ospite del contemporaneo, non configge foglie di mirto, ma disegna Ippolito nudo dietro i suoi pacchetti di sigarette; un’altra Fedra di Per Olov Enquist (1980), e, concludendo, un suo “cammeo” nell’oscura novella di Mario Vargas Llosa, Elogio de la madrastra (1988). L’adulterio è colpa che può essere auto-assunta più facilmente –  più arduo empatizzare con Medea o con Elettra, matricida; indubbio che ciò indichi  una discreta miopia – , perciò tanti rifacimenti e, soprattutto, cristallizzazioni per mano femminile che, dai primi anni del Ventesimo Secolo, si imposero per creatività e importanza, fino a comporre una lista di riscritture particolarissime.
Nel 1905, è Willa Cather ad aprire le danze, pioniera d’animo, pubblicando a New York The troll garden, raccolta di brevi storie riguardanti pittori, artisti, scrittori, la cui più nota è titolata The marriage of Phaedra; poi su la volta di Margaret Sackville e del suo monologo The coming of Hyppolitus., appartenente a un’ampia raccolta: Songs of Aphrodite and other poems. Venticinque anni dopo l’immeritatamente oscura Hilda Doolittle, scrittrice e traduttrice americana definitasi “mistica pagana” pubblicò a New York i Collected Poems in cui figurano una Phaedra e un contrasto Fedra-Ippolito. Nel 1927 amplia un precedente poemetto nella tragedia lirica Hippolytus temporizes, dalle fascinosissime implicazioni erotiche.
Dell’anno seguente è, invece, la Fedra di Marina Cvetaeva, in cui le vicende della letteratura, ancora una volta si allineano a quelle della vita. La passione per Ippolito resta il nucleo assoluto che tende e motiva l’opera. Qualche breve e doveroso accenno, in primis a Fedra, o della disperazione di una giovane Marguerite Yourcenar che in “Fuochi” (1936) racconta una Fedra priva di amore. Così Margherita Rubino:
“Le temperature insostenibili provocano la cristallizzazione, e questa Fedra sembra avere superato lo stadio del calor bianco: dinnanzi alla freddezza di Ippolito <<Come un sole quando urta un cristallo, si trasforma in spettro. Non abita più il suo corpo se non come il suo stesso inferno>>.”
Vi furono quindi, di notabile, un romanzo di Nadia Fusini (1990) La Luminosa, e il pezzo teatrale di Sarah Kane, Pheadra’s Love (1996), carico di atrocità, di sesso, di sangue, crudo e immediato, ma denso di memorie teatrali.

La Fedra di Beatrice Masini
Beatrice Masini tratta con delicatezza il dramma di Fedra, attingendo alle tre modelli fatidici.
Scagiona la figlia di Minosse da colpa – “Non so. Non è stata colpa mia. L’ha voluto una dea. Gli dei si annoiano là dove stanno. Guardano in giù e ci vedono, minuscoli giocattoli mobili.” – come fu per Racine, che attribuì la folle passione della matrigna per Ippolito al livoroso operato della dea Venere a cui il giovane, votato ai diporti della caccia, non aveva mai prestato gli onori dovuti. Accusa anche la nutrice di aver tolto dall’ombra il suo segreto nefasto – come fu per Euripide – senza parlare di stupro; piuttosto di insidia –, e come Euripide inscena con efficacia meticolosa la causa di tutti gli eventi: lo scontro fra Afrodite, che si dimostra trionfante, e Artemide che, pur legata a Ippolito che le era caro più di ogni umano, è priva di lacrime e riso come si addice agli Eterni.

L’Autrice
Beatrice Masini (1962), nata a Milano, giornalista e traduttrice, è scrittrice capace di guardare al mondo dell’infanzia senza retorica, con partecipe attenzione alla dimensione psicologica e con una inesauribile capacità di cambiare registri formali; fra i suoi ormai numerosi lavori segnaleremo l’intenso Se è una bambina (Fabbri, Milano 1998), Fango su e fango giù (Salani, Milano 200), Olga in punta di piedi (Einaudi Ragazzi, Trieste 2003) più volte ristampato – un delicato romanzo di crescita che fa riflettere anche sulle infanzie programmate dagli adulti.

Bibliografia
-Beseghi E., La letteratura invisibile – Infanzia e libri per bambini, in Beseghi E., Grilli G. (a cura di), Roma, Carocci Editore S.p.A., 2011, pp 148-49
-Boero P., La letteratura per l’infanzia, in Boero P., De Luca C. (a cura di), Bari, Gius. Laterza & Figli SpA, 2009, p. 416
-Masini B., Signori e signorine – Corale Greca, Trieste, Edizioni EL, 2002
-Rubino M., Fedra – per mano femminile, Genova, il nuovo melangolo s.r.l., 2008,
-www.edizioniel.com. (data ultima consultazione: 8/10/2018)

 

 

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