Non a tutti piacciono i supereroi.
La mattina ci svegliamo e il mondo fa schifo. Altre volte ci alziamo, il sole splende, il vento è fresco, e un piccolo Liebniz risorge in noi: è davvero il migliore dei mondi possibili.
Comunque cominci il nostro giorno però il telegiornale ci ricorda sempre volentieri che tutto sta andando a rotoli, che il pianeta sta morendo e gli innocenti soffrono.
Sono sempre gli innocenti a soffrire, non c’è alternativa a questo. E nel mondo in cui viviamo sappiamo che se quando ci svegliamo un innocente soffre, quando andremo a letto sarà sempre lì a soffrire.
Qua non ci sono eroi, tantomeno super.
Ecco perché a me invece i supereroi piacciono, mi piace l’idea che possa esistere un mondo, benché fittizio, in cui ogni tanto qualcuno si salva o, viene salvato. Mi piace che ogni tanto almeno in quel mondo qualcuno la paghi per le sue malefatte. Mi aiuta a sopportare il dolore di stare qui.
Se c’è un motivo meraviglioso per stare qui, oggi, è allora Daredevil, e la nuova serie sbocciata su Netflix come uno di quei bellissimi e rarissimi fiori che se ne fregano della logica e fanno capolino fra la sabbia del deserto.
Ma parlando del diavolo…
Il 10 aprile è uscita, come è d’usanza su Netflix, l’intera prima stagione di Daredevil, supereroe molto particolare inventato nel 1964 da Stan Lee e Bill Everett per la Marvel.
Mi prendo un breve spazio per spiegare chi sia il diavolo di Hell’s Kitchen a chi non lo conoscesse, o lo conoscesse poco.
Daredevil, che in inglese significa letteralmente “scavezzacollo” (ovvero quelle specie di stuntman che fanno spettacoli in cui saltano dentro cerchi infuocati a bordo di una motocicletta o cose simili), è probabilmente il più atipico, ma in un certo modo più realistico, di tutti i supereroi.
Quando aveva 9 anni Matt Murdock, normalissimo bambino dai capelli rossi figlio di “Battlin'” Jack Murdock, pugile da 4 soldi, salvò eroicamente la vita ad una persona che rischiava di venire investita da un camion spingendola via. Siccome nessuna buona azione resta mai impunita, nel salvare questa persona il buon Matt rimase cieco; il camion, che trasportava rifiuti radioattivi, sbandò, rovesciando parte del liquido in faccia al povero Matt, che così rimase cieco.
Una volta risvegliatosi nel mondo dei non vedenti i sensi di Matt però si acuirono a causa delle stesse sostanze che gli avevano tolto la possibilità di sbirciare sotto la gonna alle ragazze o di sospirare di fronte alla magnificenza di un tramonto. Ecco quindi il suo superpotere: Matt Murdock è un cieco che però sente, odora, gusta e palpa oltre i limiti delle possibilità umane.
Un’altra cosa che adoro di Daredevil è che, a differenza degli altri supereroi, lui non difende una città intera (Matt è di New York), ma si limita a un obiettivo possibile: il proprio quartiere, Hell’s Kitchen.
C’è da dire che Hell’s Kitchen non sono quattro strade di campagna, ma una gigantesca area urbana, ma resta sempre una porzione di un grandissimo tutto.
Veniamo alla serie.

Dai tempi del primo film di Spiderman (quello di Raimi) mi sono sempre chiesto perché il cinema non riuscisse a proporre mai una versione davvero bella e profonda dei miei miti.
Tutti i film di supereroi rimanevano sempre intrappolati tra i cliché del bene e del male e della giustizia spicciola all’americana. Per carità, spesso anche nei fumetti stessi capita di assistere impotenti a questa pochezza, ma sappiamo che due settimane dopo uscirà un nuovo numero, e il nostro eroe potrà riscattarsi.
Al cinema non è così, e neanche in tv. Le cose vanno programmate bene, gli attori scelti con criterio, e ci sono i costi di produzione: se un supereroe vola e fa esplodere un sacco di cose costerà mooolti soldi, mentre ai disegnatori può costare al massimo qualche boccetta d’inchiostro.
E così per un decennio abbondante mi sono sorbito Smalville, Arrow, i vari Batman, Agent of Shield, i Vendicatori, etc.
Per carità, molti di questi prodotti li ho amati, anzi la maggior parte, e hanno pure riscosso ampio successo nel mondo, ma finora non avevo mai visto un film o una serie che potessi consigliare di vedere anche a qualcuno che i supereroi proprio non se li può patire.
Anche lo smanioso Batman di Nolan, per quanto provasse almeno nelle atmosfere, ad essere più maturo di Iron Man o un qualunque film di Spider-man (sigh Peter, perché ti hanno fatto questo?) restava sempre quel film col cattivone che alla fine si fa menare dal super fusto.
È per questo che quando nella puntata numero 3 è apparso Kingpin sono saltato sulla sedia col cuore in gola: finalmente un antagonista! Badate bene, non un cattivo: un antagonista. È diverso.
Questo è il genere di cose che rende la serie Netflix di DareDevil diversa da tutto quello che abbiamo visto finora sui supereroi: la drammaturgia.
Dietro le vicende di Murdock e soci, si cela una sceneggiatura coi controcoglioni.
Daredevil non è una serie per appassionati di fumetto, è una serie per tutti, e non in senso negativo.
Non devo andare al cinema, o al computer in questo caso, per controllare che la tutina del mio eroe sia la stessa del fumetto o per vedere se gli attori assomigliano abbastanza ai miei idoli, tanto più che lo devo proprio dire: Charlie Cox come Matt Murdock non ci incastra una sega! Ma sapete cosa? Chi se ne frega! Il fatto che Matt Murdock sia, ed è sempre stato fin dal primo numero, di capelli rossi, un po’ perché irlandese e un po’ perché il rosso è il colore fondamentale in Devil, mentre sia Ben Affleck che Charlie Cox siano entrambi mori, una volta tanto non ha importanza, perché il telefilm è così bello che finalmente questi dettagli tornano ad essere dettagli e non l’appiglio fondamentale dei leoni-nerd da tasteria che vogliono la riproduzione scannerizzata delle pagine cartacee su pellicola (vedi X-Men: days of future past).
Nei 13 episodi della prima stagione, che in realtà sono 13 tappe di un lungo film da bere tutto d’un fiato, ci viene presentato un mondo, le sue regole, e il motivo per cui dobbiamo stare lì, seduti, a vedere cosa succede.
In scena compaiono due facce di una medaglia che ci tocca tutti quanti: la giustizia.
Già ne avevo parlato, Daredevil è il supereroe che più di tutti incarna la giustizia: di professione avvocato, di notte giustiziere mascherato. Qualunque sia il momento della giornata, Matt Murdock è un uomo di giustizia.
Ma è anche un uomo con un sogno: fare del bene per la propria gente, aiutando la propria città e il proprio quartiere a rimettersi in piedi (New York è ancora mezza devastata in seguito all’invasione dei Chitauri in Avengers 1).
Dall’altro lato del tavolo c’è lui, l’uomo che non può essere nominato, Wilson Fisk, magistralmente interpretato da Vincent D’Onofrio, ai più noto come “soldato Palla-di-lardo”, che con Matt ha in comune lo stesso identico ideale, ma i mezzi che utilizza sono illegali.
E il duello non è una semplice partita fra buoni e cattivi, è una guerra per la nostra anima.
Perché Fisk, anche se uccide e orchestra piani, non è un malvagio, ma un imprenditore con un sogno, un sogno positivo, e che sta portando a compimento. Murdock è l’avvocato degli ultimi, ma quando indossa i neri panni di Daredevil (sì neri come nella storia di Frank Miller) infrange tutte quelle regole per cui di giorno lotta. Cosa lo rende diverso da Fisk allora?
– Tu sei come lui
– Io non uccido.
– Ah sì? e Piotr. allora? Lo hai lanciato dal balcone. È ancora in coma.
– Respira ancora no?Dialogo fra Vladimir e Matt Murdock
Un uomo che fionda gente giù dal terrazzo, anche se si tratta di mafiosi russi, è un uomo di cui fidarsi? Basta davvero il “non uccidere” per sentirsi in diritto di pestare a sangue criminali et simili? Batman direbbe di sì, ma Daredevil non è un annoiato e pompato miliardario con la fissa dei pipistrelli, per fortuna.
Who watch the watchmen, diceva Platone, prima che Alan Moore gli fregasse la battuta per scrivere una delle più belle storie del mondo. E gira e rigira dopo duemila anni siamo ancora qua, a chiederci dove stia la ragione.
E grazie al cielo Daredevil non risponde.
La trama della prima stagione è un noir incredibile, dove alla fine nessuno avrà le mani pulite o potrà dirsi innocente. Tutti, più o meno sguazzeranno nel fango di Wilson Fisk e resteranno macchiati per sempre. E questa è un’altra scommessa vinta da Netflix: una serie matura, convincente, che ha da dire qualcosa che va oltre i costumi aderenti e le bandiere americane.
Ma ce n’è anche per i Nerd più incalliti: citazioni ovunque, fisionomie rispettate (D’Onofrio è Kinping proprio come me lo sono sempre immaginato, forse pure meglio), nomi ed eventi esatti. Tutto come dovrebbe essere.
Se non vi fidate guardate qui:
Boh, io combattimenti belli come questi credo di non averli mai visti.
Un’altra cosa che mi piace davvero della serie è il modo in cui sesso e violenza sono presenti solo se necessari. Non ci sono corpi nudi che sbattono sui tavoli da cucina spaccando bicchieri, piatti e mobilio vario Ikea; la gente scopa nel proprio letto, come tutti i cristiani. E le morti – che sono davvero tante – non sono mai gratuite o eccessive, ma per questo molto più forti e paurose.
Daredevil fa paura perché è vero.
Mentre Batman è un supereroe perché vuole vendicarsi dei genitori, Mentre Superman è così perché è così e basta, mentre l’Uomo Ragno è mosso da un gigantesco senso di colpa che cerca ostinatamente di redimere, Daredevil è un supereroe perché sente che ha qualcosa da dare alla comunità in cui vive; perché una mattina ha deciso che era abbastanza tutto quel dolore, e che lui doveva provare a cambiarlo.
Ma Daredevil è umano perché è l’eroe che più di tutti è disposto al compromesso. Daredevil è un uomo, non un Dio, ed è consapevole dei propri limiti. Per questo non vuole salvare il mondo, si accontenta di Hell’s Kitchen; per questo nonostante sia un avvocato è anche un giustiziere, perché sa che la legge ha dei limiti. E per questo non uccide, perché anche Devil deve avere un limite, altrimenti non è più umano.
Il diavolo fa le pentole, dice il proverbio, non i coperchi.
A quelli ci ha pensato Netflix.
D’accordo su tutto, preciso solo una cosa: la scelta degli attori. Daredevil è incentrato sulla normalità, sanguina di brutto, si fa male, soffre e sbaglia. Come Kimping (eccezionale, il mio preferito) ama Vanessa e ha i suoi dubbi e le sue incertezze. E questa ricerca della normalità si ha anche negli attori, che non sono i modelli bellissimi e sempre curati di Arrow, ma hanno facce comuni, che potresti vedere al supermercato. Matt non ha la pettinatura da divo e un fisico atletico ma non ricerca la definizione di Oliver Queen, Karen è bella senza però essere la top model e Foggy ostenta la sua buzzetta da birra. Il costume nero poi è così bello che, per la prima volta in tutti i telefilm\film che ho mai visto, dispiace quando l’attore indossa il manto definitivo. Unico neo: mi sarebbe piaciuto un minutaggio superiore di Foggy, magistralmente interpretato da Henson. Migliori attori lui e, ovviamente, D’Onofrio.
Pingback:Lo Chiamavano Jeeg Robot: La Recensione