« Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare. »
(Sigmund Freud, Il perturbante, 1919.)

Das Unheimliche è un aggettivo sostantivato della lingua tedesca, utilizzato da Sigmund Freud come termine concettuale per esprimere in ambito estetico una particolare attitudine del sentimento più generico della paura, che si sviluppa quando una cosa (o una persona, una impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo cagionando generica angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità.

Dall’incipit della pagina di Wiki su Il perturbante si capisce come questo termine si leghi inestricabilmente al sommerso; una serie di ombre e tremori che si nascondono silenziosi in oscuri anfratti in attesa di avvertire un cedimento, una frattura nella nostra struttura individuale, per manifestarsi in forme impreviste.

Nei primi anni del Seicento, W. Shakespeare occultò nel tessuto narrativo di una delle sue tragedie più blasonate delle vere e proprie trappole, capaci di effondere un diffuso sentore di inquietudine, eludendo le barriere difensive primarie della ragione per conficcarsi direttamente nel cuore pulsante nel lettore.

Nel 2015, la troupe capitanata da Justin Kurzel affronta frontalmente il testo shakespeariano affondando le mani nella carne viva di Macbeth, senza la paura di uscire dall’operazione lordata dalle interiora di un’opera sviscerata in ogni suo aspetto costitutivo. Il risultato è un film che fa sfoggio di una potenza evocativa indiscutibile ma che, per sua natura precipua, rifiuta di sottostare a qualsiasi compromesso.

Macbeth è la storia dell’ascesa, del tradimento, della follia e dell’inesorabile rovina di un uomo che si ritrova a dover fare in conti con gli spettri generati dalle sue stesse scelte di vita. Il protagonista vede l’equilibrio mentale scivolare via progressivamente in un processo direttamente proporzionato a un incedere di decisioni determinanti che non riuscirà a disertare.
La sorte, incarnata dalle ineluttabili Sorelle Fatali, accompagnerà passo per passo le peripezie del nobile scozzese, delineandosi però come un’entità insondabile: il confine fra l’onnipotenza del fato e il margine operativo concesso all’individuo resta labile, tanto che gli interrogativi lasciati aperti nel finale sono maggiori di quelli posti nei primi momenti della storia.

Uno dei prodigi delle drammaturgie di Shakespeare risiede nella loro capacità di spalancare interi mondi nella mente del lettore, facendo leva unicamente sulle multiformi possibilità suggestionanti della parola; i dialoghi del Bardo non solo deliziano per la loro musicalità, ma raccontano, muovono, descrivono, ingannano, istigano, smascherano, ergono palazzi, invocano spettri, spaziano per l’intera scala emozionale cangiando tanto da suscitare le più variegate sensazioni.
Quello del poeta inglese è un universo le cui colonne portanti sono le parole.

Per questo l’intento, non semplice, di Kurzel diventa quello di imbastire un’impalcatura filmica in grado di dare lustro alla veemenza del testo originale.

Ogni fotogramma di Macbeth è pesato. Ogni immagine è tesa a sostenere una specifica lettura. Ogni brano e addirittura ogni variazione rispetto alla traccia di riferimento, si incastona in un quadro coeso.
L’obiettivo non è quello di costruire belle scene o di proporre un colpo d’occhio sbalorditivo; non si vuole stupire per il solo gusto di farlo, si punta invece a proporre una lettura dell’opera coerente e consapevole, frutto di un ostinato lavoro di analisi dell’opera.

 La scelta di mantenere quasi intatti (anche se in riduzione) i dialoghi shakespeariani, concentrando tutti gli sforzi registici sull’estetica del film è intrapresa proprio in quest’ottica.
Il nebulare rosso sanguigno che polarizza istantaneamente l’attenzione dello spettatore, introduce la natura truce dell’intreccio narrato. Si tratta di una storia di sangue e viene comunicato limpidamente già nella prima scena, mediante le immagini.
Kurzel concerta i suoi sforzi con Arkapaw, il direttore della fotografia (se il suo nome vi è nuovo forse il fatto che abbia lavorato a True Detective e Top of the Lake può suggerirvi qualcosa) per mantenere sempre coerente una direzione artistica che riesce anche a proporre un’evidente circolarità tematica, oltre che visiva.

Quando la ragione del sovrano traballa, nei momenti in cui la situazione manifesta apertamente delle criticità, i contorni si fanno meno definiti, la bruma fa capolino, quel perturbante descritto all’inizio dell’articolo si prende la scena trasformando la mente del protagonista nel palco su cui avvengono gli eventi più significativi.
Lo stacco è spesso inscindibile dal continuum della narrazione, esattamente come realtà e follia nella percezione di Macbeth. Le immagini che si susseguono sullo schermo non sono immediatamente decifrabili; la pellicola incede sul sottile filo sospeso tra il mondo estrinseco (rintracciabile nelle conseguenze delle azioni, la spietata realtà dei fatti) e quello intrinseco (la dimensione interiore del protagonista ma anche la terra dell’occulto, il regno in cui si muovono le streghe e i fantasmi); costante però si mantiene l’angoscia: la sensazione che un manto sinistro avvolga ogni azione che ci viene mostrata.

Non viene meno a simili precetti nemmeno la colonna sonora partorita da Jed Kurzel, adatta a conferire ai quadri in movimento di Arkapaw un’atmosfera decadente, un soffio romantico che ben si sposa con l’aura di irrequietezza appena descritta.

E Michael Fassbender e Marion Cotillard che ruolo hanno in tutto questo?

I dialoghi del Bardo non si lasciano domare facilmente: richiedono una duttilità espressiva notevole, una ricerca sul personaggio profonda oltre che una predisposizione alla modulazione costante del proprio apparato emozionale. Non si riesce a recitare Shakespeare senza prima aver cambiato pelle; simili testi hanno le stesse proprietà di una cartina di tornasole: un approccio alla parte inappropriato traspare immediatamente, senza possibilità di replica.

Un simile preambolo solo per dire che raramente mi era capitato di vedere su schermo una coppia tanto affiatata e tanto efficace come quella recitata da questi due talenti. Fassbender lavora sullo sguardo, sulla mimica, sui gesti, per esprimere lo smarrimento del suo personaggio, quasi fino a dimenticare se stesso; Cotillard rende giustizia a uno dei ruoli più affascinanti e sfaccettati del teatro di ogni epoca, restituendo una Lady Macbeth tanto luciferina quanto fragile, prendendosi la scena in un monologo esiziale, reso con uno dei primi piani più drammatici di tutto il film, letteralmente mozzafiato.

Macbeth è un film che si cimenta in un’impresa perigliosa; lo fa con coraggio, con caparbietà, con mestiere e con meticoloso impegno.
Macbeth è un film che dà tanto, che riesce a sprigionare tutte le potenze sigillate da Shakespeare nel suo capolavoro, ma che per riuscirci chiede allo spettatore una dovuta dose di partecipazione e di impegno.
Se non avete paura di restare tramortiti da uno spettacolo che si rivolgerà direttamente alle vostre pulsioni sopite, allora lasciatevi trasportare.
Non ve ne pentirete.

Macbeth – La recensione

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