Nella prima mezz’ora della puntata d’apertura di Sherlock – Season 4 vi ritroverete spesso a controllare di avere digitato il titolo giusto dello streaming, visto che l’impressione sarà quella di esservi imbattuti, per sbaglio, in un sequel apocrifo di Ace Ventura – L’acchiappanimali, mentre stavate cercando l’ultima stagione della serie scritta e ideata da Steven Moffat e Mark Gatiss.
Nell’articolo di TNE dedicato al detective di Baker Street, interpretato da Benedict Cumberbatch, e al fido compare Martin Freeman, nei panni del Dott. Watson, per l’uscita dell’abominevole sposa, avevo già sottolineato come la serie stesse prendendo una china fin troppo compiaciuta e auto-celebrativa; l’inizio della quarta stagione, apparentemente, concretizza le mie paure: Sherlock, in fermento per un’apparizione inaspettata di Moriarty – che, a regola, dovrebbe essere morto e sepolto – risolve freneticamente un caso dopo l’altro, con una velocità demenziale, dovuta a catene deduttive ancora più improbabili di quelle azzardate da Jim Carrey.
Costretti a stare dietro a un ritmo impossibile, si continua a seguire la storia, convinti che la coppia di autori inglesi abbia ormai definitivamente deciso di trasformare la loro creatura in una comedy pura – già nella S3 c’erano state delle avvisaglie -, con la pretesa però di spalmare ogni episodio su più di novanta minuti.
Come se non bastasse, in The Six Thatchers (questo il titolo della 4×01) non si scorge, tra le decine proposte, una singola indagine di reale interesse, soprattutto perché nessuna viene approfondita abbastanza da diventarlo. La vicenda principale si perde di vista, spezzata da una marea di parentesi e le caratteristiche dei personaggi sembrano volutamente esagerate: come se si sentisse l’esigenza di ribadire, in ogni scena, chi siano Sherlock Holmes e John Watson, in modo da fare appello all’affetto dei fan. Dulcis in fundo, la regia è pulita ma anonima: Rachel Talalay (la regista) Paul McGuigan lo ha evidentemente studiato tanto, ma non sempre basta.
In sintesi: deduzioni grottesche, vicenda debole, caratterizzazioni urlate.
Stiamo descrivendo i prodromi di una débâcle totale?
Assolutamente no.
Perché Steven Moffat e Mark Gatiss non sono due “fanficationari” qualsiasi, ma gli autori originali della serie.
Due autori maledettamente talentuosi per giunta e, anche se il serbatoio delle idee sembrerebbe proprio essersi prosciugato, la coppia di sceneggiatori sfodera l’intera cassetta degli attrezzi per portare a casa il risultato, riuscendoci pienamente – conta come spoiler? – nella trionfale puntata conclusiva.
Vediamo come.
The Six Thatchers non piove di quel che tuona e, anzi, si chiude in maniera inaspettatamente drammatica, portando il rapporto tra Sherlock e Watson a una sorta di sospensione.
In The Lying Detective (4×02) ritorna, finalmente, la figura di un avversario forte: un Toby Jones viscido e inquietante nei panni di un serial killer privo della benché minima umanità.
La presenza di uno sparring partner di livello, interpretato magistralmente, sostenuto da un intreccio meno ingarbugliato e più coerente, permette l’esecuzione di un arrangiamento riuscito: non c’è nessun elemento particolarmente originale, la stessa scelta di costringere Sherlock al limite estremo delle sue condizioni psicofisiche, mostrando così le debolezze e l’umanità del personaggio, è in realtà una variante sul tema di quello che si era già visto nel finale della seconda stagione, nell’ultimo faccia a faccia con Moriarty. Stavolta però il gioco di prestigio riesce grazie a un sapiente impiego degli ingredienti: il ritmo è incalzante ma non indiavolato; Sherlock continua a essere sovrumano ma le condizioni ambientali avverse mitigano i suoi “superpoteri” deduttivi; l’intreccio continua, forse, a non essere il massimo della logicità, ma ai buchi di trama sopperisce il carisma invidiabile del businessman Culverton Smith, il personaggio di Jones.
Nota più lieta: il twist finale introduce, finalmente, un elemento realmente destabilizzante.
Certo, per farlo si ricorre a quella che potrebbe essere considerata, per usare un eufemismo, una forzatura però Sherlock è una serie che ha costruito la sua fama sul prendere in contropiede lo spettatore: non può permettersi di essere prevedibile ed era ormai troppo tempo che non riusciva a dare una scossa forte.
Per questo, nonostante sul momento la reazione più spontanea, oltre che la più British, sia quella di alzare un sopracciglio perplesso, giunti ai titoli di coda non si vede l’ora di avviare il terzo e ultimo capitolo: The Final Problem.
Da lì in poi sara un unico, costante, orgasmo.
Giusto per essere chiari: The Final Problem non ha solo dei buchi di trama, è praticamente un groviera. Non ha dei passaggi che non tornano, ha piuttosto qualche passaggio che potrebbe tornare, chiudendo un occhio. Non ha dei personaggi irrealistici, ha dei personaggi impossibili.
Eppure è una delle puntate più riuscite della serie.
Si tratta di una cavalcata inarrestabile, con una sceneggiatura tarata al rialzo, dove si alza la posta in gioco a ogni scena. Ogni dialogo diventa decisivo, ogni dettaglio è un’arma rivolta contro lo spettatore, ogni scelta una questione di vita o di morte.
Il personaggio di Sian Brooke è sia sbagliato, impossibile, incongruente e poco credibile, sia l’unico nemico davvero in grado di rivaleggiare con Moriarty in letalità e presenza scenica.
Le esagerazioni ostentate, che nel primo episodio portavano a situazioni demenziali, si trasformano in epicità, tanto che si resta così incollati allo schermo da non avere il tempo effettivo per analizzare quello che sta succedendo:
Il modo migliore per nascondere qualcosa è in piena vista.
La citazione è del protagonista ma potrebbe benissimo essere messa in bocca agli stessi Moffat e Gatiss, che nascondono scelte narrative discutibili e incongruenze lampanti piazzandoci sopra un bell’occhio di bue luminoso: ogni stortura è in bella vista, solo che è infiocchettata talmente bene da sembrare bellissima.
Sherlock si chiude, quindi – sempre che non venga annunciata una nuova stagione, cosa non così impossibile -, in grande stile. Certo, c’è voluto un bel po’ di free climbing in sede di sceneggiatura e a Cumberbatch e Freeman ormai non resta altro che andare sulla luna, ma quando cala il sipario si riesce a provare solo del bene per questi personaggi.
Perché a Baker Street, tutto sommato, ci si ritorna sempre volentieri.