La sua vita esisteva ormai solo per la poesia. Non le importava nulla della fama o dell’approvazione. Scriveva per liberare i pensieri troppo vasti, che non poteva contenere nel corpo fragile. E scrivendo aveva raggiunto una sua dolorosa felicità segreta. Desiderata da sempre, con fatica raggiunta, precariamente trattenuta, custodita gelosamente per sé nella piccola stanza di sopra, e confidata solo agli animali suoi amici, dei quali cercava la compagnia sulle brughiere. Il suo amore Emily lo riservava a loro, alle rocce, all’erba, al vento.
La vita di Emily Brontë si è svolta esclusivamente all’interno del suo universo interiore, rivolta alla sfera intima delle sue origini, custodita al riparo di una casa, che era una sorta di anello di congiunzione tra lei e il mondo di fuori. Come la comunità degli uccelli di brughiera, isolata eppure dominatrice del cielo e della terra, Emily Brontë condusse una vita autonoma, inaccessibile a chiunque e a tutto: nasce e vive essenzialmente sola. La sua storia è tinta di sofferenza, perdita e fallimento. E tuttavia si scorgono un coraggio, un eroismo e un’integrità difficile, una corrente profonda di trionfo in questa vita e in questa morte, consacrate alla scrittura in una mai sopita nostalgia per ciò che sta oltre l’apparenza. Non conosceva ciò che gli uomini chiamano amore: fece molto di più. Non avendo l’amore, ma provandone una necessità quasi vitale, la scrittrice lo ha inventato, scandagliato, vissuto nella fantasia, più vera sempre di qualsiasi realtà. (…) Indimenticabile riuscirà la sua figura a chi ne scorra i versi, il romanzo, le pagine biografiche: Emily che era alta e forte e non conquistabile, Emily che amava gli animali e le brughiere; Emily con Keeper, il cane amico; Emily che camminava per le colline con il passo veloce sopra la terra aspra. Emily che amava essere sola.
(…) And curb my own, wild will.
Sin dall’inizio, da quando il reverendo Patrick Brontë lasciò Thornton per la canonica di Haworth, Emily Jane Brontë manifestò indole selvatica: fuori, oltre i limiti del giardino, dove le colline sfumano nell’aperta brughiera, le piaceva affondare i piedi nell’erba, nella tormentilla d’oro, tra le campanule azzurre, o le bionde calendule di palude…
Ma amava l’erica più di ogni altro fiore e l’avrebbe amata sempre, appartenendole sin dai primi momenti della sua infanzia. Più degli altri amò sin da subito le passeggiate per gli spazi deserti: era sempre riluttante a tornare indietro. Emily, la piccola selvaggia dallo sguardo di una creatura domata solo a metà, che non si curava dell’opinione di nessuno e che pareva felice solo tra i suoi animali – queste le parole della zia, Miss Branwell – era una bambina altruista e affettuosa, con il fervente bisogno di essere capita, amata, e contraccambiata negli slanci. Rifletteva negli occhi la mobilità emotiva di un temperamento intenso e impulsivo: era, a volte, di una tenerezza disarmante, altre impossibile da controllare, e così coraggiosa da separare a mani nude due cani in lotta, pur di proteggere il suo cucciolo Keeper, fedele compagno di tutta la vita.
Non era fatta di materiale flessibile o comune.
Una pienezza di vita
Visse unicamente, visse davvero, nel suo universo interiore, da straniera nella comunità degli uomini. La sua natura furiosamente emotiva pativa, se costretta a sfiorare cose futili; per molto tempo, mentre provava un disperato bisogno d’amore, credette di non essere amata: in un certo senso aveva ragione. Non era apprezzata per quel che era: in casa tutti disperavano per lei, più cresceva più diventava strana, inafferrabile, mescolanza singolare di riservatezza, umiltà e orgoglio. I pochi che l’avvicinarono ricevettero l’impressione di un essere assolutamente diverso da loro: una creatura dotata d’una lontananza scarsamente umana. Certo, come il padre, aveva in sé un’impetuosa scia di violenza che non cercò mai di reprimere. Charlotte – la definì, in un brano delizioso, un gran toro che muggisce – e ne ammirò la forza vitale, ispirandosi a lei per il personaggio di Shirley Keeldar lasciandone una toccante testimonianza nell’immagine di Diana Rivers in Jane Eyre.
(…) Se nel nostro terzetto vi era un superiore e un capo, era Diana. Fisicamente era (…) bella. Nella sua forza, vi era una pienezza di vita e una sicurezza in quel fluire che destava la mia ammirazione… (XXX).
Era, Emily, una creatura potenzialmente distruttiva: le piaceva dipingersi, soprattutto nelle brughiere, come una sorta di sconsiderata instabile, priva di prudenza e di scrupoli – in realtà non era che una precoce forma di difesa tristissima. Non sentendosi capita, convinzione errata, fece sempre meno perché la capissero: in modo progressivo e impercettibile li tagliò tutti fuori da quanto le accadeva, schermando la sua nudità sotto un manto d’indifferenza. Si aprì irrimediabilmente a una solitudine profonda, attraversando crisi di malinconia silenziose: si sentiva attirata dagli eccessi – spiccava il volo, o affondava: nessuna via di mezzo. Presto non si preoccupò più di celare la sua avversione per la vita sociale, che le proveniva dalla sfrenata intensità della sua vita interiore: là non permetteva a nessuno di penetrare. Dopo gli orrori di Cowan Bridge i suoi contatti col mondo esterno risultarono sempre fallimentari; ma si apparteneva e non ebbe rimpianti.
Contro ogni durezza (…) aveva sempre trovato rifugio in se stessa e nei mille misteri di bellezza e terrore della natura che, con prontezza confortante, rispondeva immancabilmente al suo richiamo. (…) Affermava con orgoglio il proprio ritirarsi solitario (…). Sulla falsariga di Epitteto, dichiarava la sua negazione stoica al coinvolgimento, l’esclusione volontaria dalla lizza che affatica e perde gli esseri.
Un vagabondare selvaggio
Voleva correre, guardare, sentire, più che sapere: vagabondare sotto ogni tempo nella brughiera con i suoi cani – era solita trarre in salvo gli animali feriti e presto ebbe un bizzarro seguito – giocare con Anne, votarsi ai suoi libri, e tutto quando il cuore lo domandava. I suoni e i rumori degli animali a lei noti l’accoglievano nel cammino e si mischiavano al frusciare dell’erba, all’erica rossa cedevole sotto i piedi, al battente ritmo dei suoi passi sul terreno: la felicità pulsava assieme a quella terra aspra, sentiva che le brughiere le appartenevano.
Si calava nella solitudine offertale dalle alture e dalle curve morbide, la fronte rivolta al vento; non avrebbe saputo dire perché provasse un tale amore per quelle distese brade di terra e cielo, immerse in un antico silenzio, ma sapeva che il proprio essere, poiché simile a quel paesaggio, provava una bella disposizione a fondersi con esso.
Visionaria e fantasiosa, pur dotata di una cultura immensa seppur frammentaria, non comprendeva chi dedicava le proprie giornate all’erudizione. La libertà e il sorgere in lei del potere d’inventare un mondo costituivano il dono della vita: non le importava né della fama, né dell’approvazione: scriveva per la sua sola, dolorosa, felicità. Da sempre estrema, tendeva a essere cupa e intensa: aveva connaturato in sé il bisogno di respirare emozioni potenti e di esprimerle, in maniera altrettanto potente, attraverso la scrittura di poesie e del suo unico romanzo: la veemente e impetuosa opera di un genio. Proprio a causa delle sue poesie, il tesoro prezioso, vi fu una prima rottura con Charlotte rea di aver violato la sua solitudine leggendone i frutti senza alcun ritegno o rimorso – e di averglielo poi confessato con non poco entusiasmo. La sorella era rimasta sbalordita dallo splendore del suo genio.
Un giorno, nell’autunno del 1845, mi imbattei per caso in un volume manoscritto di versi di mia sorella Emily. (…) Lo esaminai e qualcosa di più della sorpresa si impadronì di me.
Acconsentì, riluttante, alla pubblicazione delle sue rime – più per amore di Charlotte – mettendo a repentaglio una sicurezza interiore faticosamente
acquisita: esporsi al mondo fu sempre, per Emily, un’esperienza traumatizzante. Scelse uno pseudonimo che doveva, forse, qualcosa alla nonna irlandese Aylis, Alice, quanto a Ellis Walker, l’autrice de La filosofia di Epitteto, traduzione poetica dell’Enchiridion e a una dedica di Walter Scott al poeta George Ellis. La selvaggia non si oppose, stranamente, alla pubblicazione del romanzo: una gioia che l’allietò poco dato che, il giorno del funerale di Branwell, una raffica d’aria gelida venne dalla brughiera al cimitero esposto: Emily prese freddo e, da quel giorno non lasciò più la canonica. Mai volle parlare della sua malattia, quasi la ritenesse un disonore: chi la amava poteva assistere, impotente, al suo declino. Charlotte e Anne – che era, a sua volta, malata – la ascoltavano venire con il passo debole, fermandosi per riprendere fiato mentre saliva o scendeva le scale, la tosse insistente. Non osavano andare ad aiutarla: ferme la aspettavano.
Emily Brontë aveva ben soppesato la vita e gli uomini e deciso che, almeno questi ultimi, non valessero gran che, le sue felicità erano profonde e appassionate: scrivere, gli animali, le brughiere, la sua famiglia, e in esse aveva sempre trovato libertà e segretezza, per essere felice. La morte non era una sua nemica.(…) vi era in lei una semplice vena primitiva, l’istinto naturale della morte solitaria.
Morì con la fiera maestosità della roccia colpita dal fulmine: tentò di alzarsi appoggiandosi con una mano al divano dove batteva il sole di mezzogiorno. Le chiesero di andare a letto. – No, no – , furono le sue ultime parole: la portarono di sopra, dove dormiva accanto alla finestra. La pendola aveva appena battuto le due. Il suo grande Keeper le stava al fianco.
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