“La nostalgia affiora quando capita di incontrare una persona che si è assicurata questa relazione selvaggia.
Quando ci si accorge di aver dedicato poco tempo al mistico falò o al sogno, troppo poco tempo alla vita creativa, al lavoro della propria vita, o ai veri amori. Pure sono questi gusti fugaci che vengono sia dalla bellezza sia dalla perdita che ci fanno sentire così deprivate, così agitate, così desideranti che alla fine dobbiamo inseguire questa natura selvaggia.
Allora ci lanciamo nella foresta o nel deserto o nella neve e corriamo forte, con gli occhi che scrutano il terreno, cercando sopra, sotto, cercando un indizio, un resto , un segno che lei vive ancora e non abbiamo perduro la nostra occasione.
E quando ne ritroviamo le tracce è tipico delle donne mettersi a correre forte per riguadagnare il tempo perduto, liberare la scrivania, liberarsi dal rapporto, svuotare la mente, voltar pagina, insistere su un intervallo, una pausa, rompere le regole, fermare il mondo, perchè mai piu faremo a meno di lei……perchè con lei la loro vita creativa fiorisce; le loro relazioni acquistano significato e profondità e salute; si ristabiliscono i cicli della sessualità, della creatività, del lavoro e del gioco;
La stanchezza a fine giornata verrà allora da un lavoro e da sforzi soddisfacenti, e non dall’essere rinchiuse in un ambito mentale troppo ristretto, in un impiego o in un rapporto.
Istintivamente sanno quando le cose devono morire e quando devono vivere, sanno come allontanarsi e come restare…”
Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi
Questa non è una recensione commestibile
Questa volta non ho alcuna intenzione di effettuare autopsie sul corpo della natura e del mondo.
C’è un tempo umano e c’è, più nascostamente, una voce interiore – quel suono interno che Jack London definì “The call of the wild”.
C’è un tempo selvaggio.
Mi capita spesso di sentire la necessità – una necessità che dialoga da presso con l’istinto – di abbandonare i sentieri tracciati dagli uomini e “tornare a casa”, sull’erba o tra i monti. Malgrado sia stata grande amante del Walden di Thoreau, quanto delle storie del Nord di London che metaforizzano il ritorno alla vita selvaggia – quel che auspico per me stessa in un futuro non troppo distante – e malgrado “Donne che corrono coi lupi” sia sempre sul mio comodino, pronto a essere sfogliato una volta al giorno, “How to be a Wildflower“, di Katie Daisy – artista dalla vita libera che definisce se stessa “pittrice e fiore di campo” – mi ha cambiato la vita. Il mondo dei campi incolti – e io che sono cresciuta in periferia e all’avventura ne so qualcosa – è il mondo dell’infanzia: la Daisy si riferisce a questa dimensione di bucolica fanciullezza eterna e ci esorta all’azione, all’avventura, alla ricerca della bellezza.
“I remember the eyes I had as a child and how easily they perceived the magic of the world.”
Perciò eccomi con uno zaino abbastanza grande da contenere la mia copia di “How to be a wildflower”, lo sciroppo di lavanda che l’autrice ci insegna a preparare, e tutta l’avventura che serve.
Creature erratiche, solitarie, che amano i temporali, che amano camminare scalze nel fango, saltare nelle pozzanghere, farsi arruffare i capelli dal vento, dalla pioggia e dall’erba, abbracciatrici compulsive di alberi, raccoglitrici di fiori – dagli occhi un po’ corrucciati, alla maniera di Cummings.
Questo libro è rivolto a voi.
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