Ricordate l’Albero azzurro? Trasmissione targata RAI, in onda dal lontano e rimpianto 1990: primo esperimento televisivo nazionale su target prescolare, si rivolgeva a una fascia compresa fra i tre e i sei anni d’età. Inizialmente il programma si riallacciava, durante la sua prima stagione – (1990-1994) con Claudio Madia e Francesca Paganini alla conduzione – al filone pedagogista delle produzioni RAI anni Sessanta; le collaborazioni erano altisonanti: il Dipartimento di Scienze dell’Educazione di Bologna, e una truppa di autori più che di tutto rispetto, tra cui figurarono Bianca Pitzorno, Bruno Tognolini, Roberto Piumini, Emanuela Nava, Mela Cecchi, Bruno Munari, Renata Gostoli, Claudio Cavalli, Nico Orengo, Laura Fischietto, Lorenza Cingoli e Mauro Carli: grandi, grandissimi nomi della cosiddetta “Letteratura Invisibile” – la narrativa per l’infanzia.
Ma mi preme parlare della la seconda stagione della trasmissione: quella che mi è più cara affettivamente – momento conviviale e di condivisione affettiva coi miei genitori – , e che, soprattutto, presenta maggior valore pedagogico-culturale. La prima serie de “L’Albero Azzurro” termina nella tarda primavera del 1994; subentrano quindi cambiamenti nella scrittura delle puntate, che evolveranno da probabili situazioni auto-conclusive, a fiction munite di trama – senza, però, pregiudicare lo schema canzone-filastrocca-giochi, innestato sulla base degli argomenti educativi. La regia è affidata a Giovanni Caviezel e Loris Mazzetti e, accanto a Dodò, ecco dei conduttori dalla formazione teatrale: Augusta Gori (Lavinia Nove), Carlo Rossi (Empirio), Flavio Arras (Arras el navegador), Luisa Oneto (Luisa) e Giovanni Caviezel stesso nei panni del Musicista. Novità furono anche i cartoni animati dell’Orso Balosso, ideati da Anna De Carlo, e sceneggiati e narrati in rima baciata da Roberto Piumini. Rimane assolutamente incomprensibile come un prodotto televisivo d’eccellenza sia, oggigiorno, irreperibile – a differenza della prima serie del programma le cui puntate sono interamente visionabili su dailymotion grazie alla passione, e a quello che definirei senso civico di “alberoazzurro9094.wordpress.com”. Prescindendo dal valore affettivo immane, è indubbio l’inusitato valore pedagogico del prodotto, valore alto talmente che è impossibile, a paragone, non percepire una vera e propria
E non si trattò soltanto di un impegno profuso nell’educare il piccolo spettatore, scardinando le sue onnipotenze infantili e ogni, naturale, tensione alla tirannia – come avviene in “Giallo gelosia”, in cui la livorisità del sentimento viene mitigata a suon di canzoni – oppure insegnandogli il “Caldo e Freddo”, intrattenimento più adeguato alle fasce d’ascolto prettamente prescolari. Ecco qualche esempio ben argomentato per cui il mio Albero Azzurro andrebbe riproposto alle nuove generazioni, in replica, a mo’ di Cura Lodovico.
In una delle puntate più belle il piccolo spettatore è introdotto al culto dell’oggetto libro: all’emporio è tempo di fare ordine, e molti sono i libri catalogati – ma di questo parlerò più approfonditamente in seguito. Menzionare Lo stralisco, (Einaudi, 1987), scaturito dall’indomabile penna di Roberto Piumini, è potenzialmente, fare pedagogia della morte. Si tratta della storia di un bambino malato, Madurer, e di un pittore, Sakumat. La morte del bambino, metafora dell’età infantile che si conclude, induce Sakumat a un ritorno al villaggio natìo, un ritorno epifanico perché se tutto è rimasto identico – la casa, gli amici, la natura – è il pittore a essere interiormente nuovo. Come scrive Katia Scabello Gabrin nel tonante saggio sulla narrativa per l’infanzia, “Nelle Terre della fantasia” (Donzelli Editore, 2014), “L’identità di Sakumat trova nuovi modi di esprimere la propria originalità nel coraggio di accettare un cambiamento (quello della morte) al quale non ci si può opporre e in cui si può, creativamente, scoprire i modi per essere ancora più se stessi. Il passato, le esperienze vissute, i ricordi fissati nella memoria divengono, per Sakumat, tesoro, risorsa vitale per aprirsi a un divenire mai immaginato prima.”
Ma perché è così importante spingere un bambino, almeno in potenza, ad affrontare questa lettura?
Da sempre il tempo di leggere diviene tempo dell’essere in cui i bambini possono, attraverso la finzione narrativa, conoscere realtà che mantengono anche per l’adulto un alone misterico: la peculiarità della narrazione è, appunto, quella di organizzare una data esperienza facilitandone la presa in carico. Fin dalla prima infanzia i bambini necessitano di essere accompagnati nella comprensione degli accadimenti e, se si stima che il bambino, attraverso la televisione e l’ascolto di fiabe e racconti, già prima dei tre anni distingua la morte dal semplice dormire, ecco che dopo i tre anni d’età progredisce la sua capacità di comprensione. Perciò fare, seppure in maniera indiretta, pedgogia della morte – senza tensioni tanatofiliche – significa consentirgli non solo di convivere con essa, o darle un volto più familiare in grado di contenere l’angoscia dell’inevitabile, ma di riconoscere finalmente la profondità e l’inestimabile valore di quanto ci lega agli altri.
Tra i libri che Lavinia Nove cita con più entusiasmo ecco rientrare “Il barone rampante” e l’albo di Martin Waddell “Non dormi piccolo orso?”
Diventa importante che le figure di riferimento siano, per il bambino, capaci di investigare la mole elefantina di pubblicazioni editoriali scovando il proverbiale ago nel pagliaio: quell’1,4% delle proposte di narrativa per l’infanzia criticamente valide. Questo è ciò che fece, forse quando ce n’era un bisogno minore, l’Albero azzurro, parlando de “Lo Stralisco”, de “Il barone rampante”, del meraviglioso “Cion-Cion blu” del mesmerico Pinin Carpi, e altri albi illustrati di valore come “Non dormi piccolo orso” e “Cocconilo” – ormai irreperibile.
È un peccato che nella fase critica che l’editoria attraversa, non si pensi a sfruttare l’ampio riscontro di pubblico che il mezzo televisivo offre per formare i lettori di domani.
Al tramonto della seconda stagione ecco scomparire Luisa, in favore della noiosissima Anna; tuttavia resta qualche puntata d’importanza capitale come, ad esempio, “La Mostra dei libri” in cui il giovane telespettatore è introdotto alla fiaba, alla narrazione per eccellenza che, in forma orale e poi scritta, ha scandito la storia dell’uomo. Da sempre la fiabazione è pedagogia del fantastico: sollecita l’immaginazione dei bambini e, soprattutto, li aiuta in maniera terapica a confrontarsi con paure inespresse e conflitti interiori che vengono così esteriorizzati. Le paure primordiali dell’infanzia, come l’essere abbandonati e il divoramento, infatti, trovano perfetta collocazione logica nella libertà metaforica fiabesca.
Inutile valutare l’importanza di parlarne in un contenitore televisivo: di quanto al bimbo in crescita sia necessaria la fiaba ne hanno scritto in molti. Interessante è, però, la scelta della fiaba poi illustrata e narrata: si trattò, infatti, di Jack – italianizzato in Giacomino – Ammazzagiganti. Importante è fare crescere bambini coraggiosi e curiosi della realtà circostante: non bisogna avere paura di esplorare.
La scrittura di molti episodi, poi, mira a far conoscere “la cosa” o ad approfondire tematiche di importanza sociale, come accadde ad esempio nell’episodio “La carta” in cui una serie di volantini illustrati pubblicizza l’emporio – memorabile la “filastrocca slogan” che li riempie. Empirio apprezza lo stratagemma ma a una condizione: che non si sprechi la carta e che, anzi, si faccia riciclo. Se il processo di introiettazione mnemonica è facilitato dalla musicalità della filastrocca – che aiuta il bambino ad approcciarsi, inizialmente in maniera ludica, al tema riciclo – in un’altra puntata dal nome irrintracciable al piccolo Dodò, con cui il giovane telespettatore immancabilmente si identifica, viene insegnata la salvaguardia dell’ambiente naturale – straordinaria la storia animata in cui si mostra come avviene un incendio colposo ai danni degli ampi spazi boschivi – e, in particolare, dell’albero.
Un albero è un amico
se soffre muore e dopo non c’è più
allora penso e dico:
un po’ lo aiuto io
un po’ lo aiuti tu…
Puntate specificatamente incentrate sull’oggetto, sulla sua conoscenza e il rispetto che ci deve suscitare in quanto simbolo di un’esperienza più “alta”, ecco invece “L’orologio”, in cui l’imminente compleanno della Scuccurilla Lavinia si trasforma in modo per conoscere l’orologio in tutte le sue declinazioni e, addirittura, indagare la nozione di tempo, nozione affrontata con dovizia di particolari e imprevista profondità – imprevista in un contenitore televisivo che si rivolge a bambini in età prescolare – ne “Il vecchio e il nuovo”, in cui sempre Nove innesca una suggestivissima riflessione sulla soggettività del concetto di “vecchio”: presente e passato devono convivere procedendo a braccetto.
Ancora, ne “Il bagnetto di Dodò”, la scoperta del sapone e tutto quanto riguarda schiuma e pulizia del corpo invoglia il piccolo telespettatore, da sempre refrattario al lavarsi, a interpretare in chiave ludica questo momento della giornata. Spazio viene, poi, riservato alla divulgazione scientifica. Sfiorando la mera soggettività: “Stelle e pianeti” è, forse, il mio episodio preferito.
Devo alle VHS, affatto durevoli, la mancanza di qualche frammento dell’episodio – sacramentando. Non dimentico, però, la magia del vivere la notte – e uno dei miei più grandi sogni è rimasto quello di esplorare la notte, restando alzata fino al mattino “a cantare la canzone del miao e del gu” – , dei mestieri notturni che, raccontati, mi invogliarono a fare il pompiere. (Non spaventatevi: ricordo tutti gli episodi a memoria e, non di rado, li ri-guardo in un mare di lacrime; a volte seziono, altre no.)
Ad ogni modo: Arras racconta una fiaba cinese che parla di un re che volle contare le stelle e, al di là del concetto subliminale di hýbris, una introduzione all’astronomia riguardante la luna e i suoi crateri è presto fatta, assieme a estrapolazioni documentaristiche che svelano il fascinoso mondo degli animali notturni. Impossibile fare di meglio. O forse sì, perché in una delle puntate che, per me, resteranno sempre prive di titolo, Dodò intraprende una coraggiosa esplorazione del sottosuolo e, tra animazioni indimenticabili, ecco lo spettatore ricompensato con una serie di sfondi e documentari che illustrano la bellezza metamorfica e minerale della nostra terra: stalattiti, stalagmiti e grotte intrise di acqua che sbalordiscono alla sola vista.
Di ragioni per cui riproporre una educazione a “L’Albero azzurro” alle nuove, generazioni ce ne sarebbero altre, e molte, se non fosse che le puntate del secondo ciclo sono irrecuperabili e, soprattutto, tali sono la maggior parte dei titoli per la cui inesattezza, fallata dalla memoria, mi scuso. I bambini di oggi saranno, indulgendo alla tautologia, gli adulti di domani e aiutare la formazione di un potenziale lettore critico, o pensatore, o cittadino coscienzioso, o brillante matematico, dovrebbe essere interesse di tutti.
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