Premessa: questo articolo NON è una recensione obiettiva.
Non riesco quasi mai ad essere obiettivo quando si parla di avventure grafiche: si tratta di un genere che adoro, e spesso ne ho anche già parlato in questo blog.

L’avventura grafica è un tipo di videogioco un po’ retrò, anche se negli ultimi anni, ha avuto una sorta di rinascita – seppur con qualche variazione (penso ai vari TellTale ma non solo) eliminando quasi totalmente la componente “enigma” per lasciare spazio alla narrazione, regalandoci così dei giochi che che sono più simili a dei telefilm interattivi che altro.

Oggi però non vi parlerò di questo – parlerò di Thimbleweed Park.

Thimbleweed Park header

Thimbleweed Park è un gioco che urla continuamente “anni ’80”: a partire dalla grafica pixellosa, passando per l’ambientazione, il gameplay (con quei verbi in basso a destra, come ai gloriosi tempi della LucasArts e dello SCUMM)  e l’umorismo graffiante ma non eccessivo: non ci si poteva aspettare altrimenti, da Ron Gilbert – la mente che sta dietro alle più grandi avventure grafiche di sempre (vi dice niente “the secret of Monkey Island? Se no, vergognatevi).

Thimbleweed Park è una specie di “macchina del tempo” che ci riporta indietro di 20-25 anni, a quando rimanere bloccati per mesi in un videogioco era la norma e non ci si schiodava di lì finchè non capitava di incontrare quell’amico che diceva “mi ha detto mio cuggino che se usi la scimmia sul bullone allora apri la cascata e puoi andare”; oggi ovviamente c’è internet (oltre che un simpatico sistema di aiuti “in game”, che però nessun giocatore degno di questo nome usa alla leggera) e il fattore difficoltà viene annullato da una semplice ricera su google ma… così che gusto c’è?

Se vi serve aiuto, vi basta chiamare il 4468 in gioco.
Una bella parodia delle vecchie hint line che esistevano davvero negli USA negli anni ’80 (nonchè una citazione di Monky Island 2)

Credo che sia questo il motivo del declino e della rinascita delle avventure grafiche: oggi è troppo facile trovare la soluzione. Per questo i giochi moderni di questo genere non puntano più sull’indagine e sulla difficoltà, ma sull’impatto emotivo: se avete un cuore, non potete non piangere giocando a The Walking Dead, non potete non entrare in ansia mentre ceracate l’assassino origami in Heavy Rain e neanche Salvini resterebbe indifferente alla storia di Max in Life is Strange. Le emozioni non si possono “spoilerare” su internet, quindi da un gioco di narrazione (ormai “avventura grafica” è diventato un termine obsoleto) ci si aspetta questo.

Thimbleweed Park non è così. Thimbleweed Park sembra uscito direttamente dalla LucasArts degli anni ’80-’90, e va giocato come se fossimo in quegli anni: con pazienza, cliccando ogni pixel, parlando con ogni personaggio e (perchè no) prendendo anche qualche appunto su un caro, vecchio foglio di carta.

Le azioni coi verbi! Di una scomodità unica, ma fanno un sacco atmosfera

In Thimbleweed Park gli ingredienti per una bella stora ci sono tutti: un omicidio, protagonisti sarcastici e con personalità, situazioni grottesche e paradossali, umorismo ed ingegno.
Non scriverò nulla della trama, non voglio rovinarvela: vi basti sapere che merita, e che io (che di giochi del genere ne ho fatti tanti) me ne sono innamorato. Penso che Thimbleweed Park sia una bella meteora nel panorame videoludico odierno; non diventerà la regola e le avventure grafiche non saranno mai più quelle di una volta (giustamente), ma è stato bello che Ron Gilbert ci abbia ricordato chi eravamo, e cosa saremmo potuti diventare.

Bene, vi saluto e vi lascio con un consiglio: se vi interessa saperne di più su punta e clicca ed avventure grafiche, vi consiglio di leggere questo articolo.
Vorrei averlo scritto io.

A presto!

Thimbleweed Park: quando puntare e cliccare era di moda

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