C’è sempre un momento nella vita in cui ci guardiamo indietro chiedendoci: quand’è che ha cominciato ad andare tutto a rotoli?
È un gioco che spesso si fa alla fine di una relazione (quando lasciamo) o dopo la sua fine (quando siamo lasciati): non sempre troviamo una risposta, ma quel momento si ripete comunque.
Resident Evil è una delle saghe più amate nel mondo dei videogiochi, eppure è innegabile che l’appeal dei suoi titoli sia sceso di gioco in gioco, proponendo capitoli sempre meno horror e sempre più action.
L’equilibrio sottile su cui ballavano i primi capitoli, sospesi tra Stallone e Romero, era d’altronde un equilibrio complicatissimo da mantenere, battute come Jill-Sandwich, You lose, big guy!, rientravano nello spirito e nell’ingenuità dei titoli Playstation 1, ma a partire dal nuovo millennio il media aveva già cominciato a richiedere sempre più maturità nelle sue sceneggiature e sempre più innovazione.
“Evolvi o muori” è uno dei principi fondamentali della vita sulla terra. Le specie non in grado di adattarsi a un ecosistema variabile come quello terrestre finiscono con l’estinguersi o sulla bandiera del WWF. È ironico come questo valga pure per una saga che parla di tentativi sperimentali di evoluzione del genoma umano (ed è ancora più ironico che il miglior organismo adatto alla vita sia un morto).
Eppure è evidente in Resident Evil 4 la necessità di rompere con il passato. Ma perché?
Smitragliate, una ragazza da salvare, castelli in fiamme… Per quanto i titoli urlino “preparatevi al terrore” ad ogni frame, sembra di essere molto più vicini a Michael Bay che a Babadook.
Un giocatore storico della saga non poteva che sentirsi più spiazzato che mai di fronte a queste immagini e ricordo proprio che così fu per me e i miei amici.
RE4 uscì per Game Cube e pure quella fu una notizia, in quanto la saga era sempre stata legata alla console PlayStation.
Non solo, era di poco precedente l’uscita di un titolo avente protagonista l’altra sopravvissuta di Raccon City: Claire Redfield. Il titolo in questione era Resident Evil Code: Veronica X e, nonostante pure questo trailer sia imbottito di esplosivo, il gameplay non potrebbe essere più distante.
Dal lancio del primo Resident Evil nel 1997, Capcom era stata impegnata a sfornare capitoli ad una velocità troppo alta per garantire freschezza di idee; se il secondo titolo gli aveva detto benissimo, già al terzo le idee erano finite e il tutto si era risolto in un episodio molto fracassone, anche se ancora in grado di terrorizzare (soprattutto grazie alla B.O.W più amata dell’intera saga: Nemesis).
Per questo non si può bocciare RE3: per quanto muova i primi passi verso l’action, l’idea vincente di ambientare l’avventura in una città assediata da zombie (ovvero la fortuna della serie tv: The Walking Dead) unita all’antagonista, un bullo di oltre due metri, ossessionato dallo sterminio degli agenti S.T.A.R.S., capace di trovarvi anche mentre vi state nascondendo dalla Guardia di Finanza, valgono il prezzo del biglietto.
Resident Evil 3 è comunque un gioco raffazzonato in più punti, che cronologicamente si incastra malissimo con il secondo titolo e che spara troppo in alto sul finale (Bomba H?!?!?!).
Code: Veronica però è un’altra storia.
Capcom punta ancora una volta su una protagonista femminile (per la mia gioia all’epoca), il mio secondo personaggio preferito della saga dopo l’insuperabile Jill Valentine (ti amo): Claire Redfield.
Resident Evil ha sempre avuto un grande feeling con le protagoniste femminili e Claire non fa eccezione: da motociclista spensierata in RE2 ce la ritroviamo agguerrita e determinata ad annientare l’Umbrella in questo titolo.
Le premesse sembrano buone: un’isola sperduta nell’oceano dove l’Umbrella conduce i suoi soliti esperimenti folli, una porzione di storia giocabile finalmente con Chris Redfield, che non si vedeva da una vita, e un nuovo nemico, anzi due, i fratelli Ashford. Tutto condito da un’atmosfera scurissima, un filtro grigio degno del miglior Nolan, che rende difficile vedere a un palmo dal proprio naso.
Eppure.
C’è un momento in cui lo specchio si incrina.
Non è ancora rotto, è solo una crepa, ma da quel momento è solo un conto alla rovescia prima che vada cambiato.
In RECV il confine survival/action è frainteso di continuo, Claire è spavalda (ma questo rientra nello spirito della saga) e schiva di continuo pallottole e e pistole più che zombie, ha un arsenale adatto all’invasione di un piccolo Stato Centro-Africano, guida sottomarini e Jet militari e gira in Antartide in maniche corte e Jeans. Tutte quelle capriole visibili nelle cut-scene portano il giocatore a chiedersi: ma davvero devo sparare agli zombie?
Non posso prenderli a pedate e salvare qualche munizione extra per i boss?
È palese come la svolta machista di Resident Evil 4 sia dietro l’angolo, l’odore dei calci rotanti di Leon Scott Kennedy permea l’esperienza di gioco da cima a fondo.
Per quanto la prima mezz’ora di gioco sia all’altezza dei vecchi titoli (partiamo senza armi circondati da mostri impugnando unicamente il nostro immancabile accendino dalla benza infinita), l’effetto horror si esaurisce quasi subito di fronte a un arsenale vasto in maniera imbarazzante: pistola modificabile in pseudo mitraglietta, doppia mitraglietta, lanciagranate con 4 tipologie di proiettile, balestra con frecce normali ed esplosive, fucile a pompa, kalashnikov!, fucile da cecchino!, magnum, mega cannone a impulsi elettrici (utilizzabile solo contro il boss finale, però). Quali rischi per la propria incolumità si potranno mai correre con a disposizione un simile equipaggiamento? Dove sono finiti i dubbi amletici tipo “prendo la mitraglietta o la lascio per lo scenario b?” O il buon vecchio “finisco i mostri col coltello così mi risparmio tre pallottole”?
Survival era anche questo, una lezione che Resident Evil 2 non aveva dimenticato, mentre Resident Evil 3 aveva rigettato in favore però di un mostro che ci perseguitava continuamente facendoci sprecare tutte quelle tonnellate di munizioni (oltretutto il sistema per fabbricare munizioni lasciava a noi la scelta di quali armi prediligere, miscelando le polveri a nostro piacimento).
Quindi giriamo armati fino ai denti in un’isola ricoperta di nebbia… Com’è possibile che i programmatori non abbiano colto l’idiosincrasia? Ma è davvero solo l’abbondanza di pallottole il problema del gioco?
In Code: Veronica ci sono alcune scelte di trama e personaggi convincenti sulla carta ma sviluppate in maniera pessima.
Steve Burnside, un ragazzino finito prigioniero sul’isola per colpa del padre, ha un background interessante ma finisce solo per essere la foto che le enciclopedie usano per definire il termine cringe.
Non è chiaro il motivo per cui Steve senta sempre di doverci delle scuse, oppure perché ci tenga così tanto a mostrarsi affidabile, a noi che siamo dei perfetti sconosciuti.
Con un po’ di ragionamento si capisce che deve avere a che fare col padre, ma tutto questo non ci viene mai mostrato davvero e anzi, pure la scena in cui Steve uccide il padre ormai zombie è più ridicola che drammatica.
Altri personaggi sprecati sono i fratelli Ashford. Resident Evil ha sempre avuto un gusto per l’orrido e il malsano, ha riempito i nostri incubi di mostri schifosi con occhi che spuntavano da tutte le parti e altre cose putrescenti, ma l’idea di due fratelli incestuosi con la passione reiterata per la tortura degli insetti era qualcosa di veramente audace per un’epoca in cui i PEGI18 erano visti come un limite e non come un vanto. L’idea poi che l’incesto dei fratelli restasse nel non detto ma fosse platealmente intuibile durante il gioco resta ancora il punto più positivamente weird della serie, tanto che in Resident Evil 7 è stato intrapreso un percorso simile (la famiglia Baker rimanda spudoratamente agli stereotipi incestuosi dei redneck sudisti della Louisiana).
Eppure i dialoghi dei fratelli Ashford sono scialbi, l’ambiguità sessuale di Alfred Ashford, così avanguardista per i tempi, risulta più una macchietta liquidata malamente dal dinamico duo del cringe Steve+Claire, che una medaglia al valore. Pensare oggi invece quanto sarebbe interessante un gioco con un antagonista gender fluid, oltretutto in una storia in cui il tema fratellanza è centrale: Claire è nei guai ancora una volta per trovare Chris, Alfred fa quel che fa per amore-sudditanza della sorella, Chris affronterà di tutto per salvare Claire (uno strano cortocircuito della trama che ribalta la situazione iniziale), Alexia userà tutto il suo potere per vendicare la morte del fratello per mano dei Redfield.
In questa fratellanza trova poco spazio un personaggio come Steve che invece non ha più niente che possa chiamare famiglia e l’unica cosa a cui si aggrappa, un’infatuazione micidiale per la rocambolesca Claire, lo guida a uno degli eventi più rari – forse unici – della storia di Resident Evil: la morte di un protagonista.
Steve è l’unico dei personaggi giocabili dell’intera serie a morire definitivamente senza appello.
Non solo crepa ma diventa un mostro schifoso contro la sua volonta e dovete pure imbottirlo bene di piombo. Come se non bastasse, uccidere Alexia non basta a vendicare un’orrenda fine, Albert Wesker (lui invece tornato vivo e in ottima salute) ci tiene caldamente a informarci che il cadavere di Steve sarà usato dalla Umbrella per un sacco di begli esperimenti. Ok che era cringe ma tutto ‘sto accanimento…
Un appunto su Wesker: in questo capitolo torna per la prima volta ufficialmente in vita il primo storico nemico della saga. Il doppiogiochista per eccellenza, l’uomo dietro l’incidente di Villa Spencer, l’uomo dietro il T-Virus, il biologo-militare sempre in occhiali da sole, ex comandante della S.T.A.R.S.: Albert Wesker. Albert ha fatto un giro sul set di Matrix e dopo aver rubato tutti i vestiti si è impadronito pure dei poteri dell’Agente Smith. il combattimento finale, con cazzotti a super velocità e tubi di ferro che anziché danneggiarlo si piegano, prepara il terreno definitivamente a un futuro che non può avere più nulla di horror.
Ed è qui che va tutto a rotoli. In questo esatto momento.
Non nell’eccessivo equipaggiamento, non nella trama scritta coi piedi o nelle batutte cringe: nel fissare un antagonista non mostro.
Wesker è l’inizio della fine, perché non ha occhi che si aprono sulla spalla, non ha tentacoli sulla schiena, non è un bio-hazard. È quello che desiderava nel primo videogioco: una forma potenziata dell’essere umano, the ultimate life-form.
Reintrodurre Wesker, cosa che si subodorava da tempo ma ancora non era stata ufficializzata, ha alzato la posta in gioco verso direzioni inaspettate che hanno snaturato una saga che comunque iniziava a mostrare i segni dell’invecchiamento.
Code: Veronica è un titolo raffazzonato ma senza i guizzi di RE3: benché lo scenario si sposi con la saga (a parte l’Antartide, mio dio, ma cosa vi è venuto in mente? Dovrebbero morire di ipotermia dieci minuti dopo essere scesi dal jet con quel vestiario!) niente funziona davvero dopo i primi venti minuti di gioco e soprattutto si avvertono gli anni di un gameplay dove, sostanzialmente, non è cambiato nulla rispetto al primo titolo, se non gli ovvi upgrade di grafica e fluidità dei movimenti.
Per la prima volta i nemici sono gli uomini e non i mostri; i protagonisti non devono più fare i conti con una situazione sfuggita di mano dove tutti sono in pericolo e non c’è tempo di giocare ad amici o nemici (Jill con Barry in Resident Evl 1; Claire con Annette in Resident Evil 2; Jill con Carlos e Nicolai in Resident Evil 3) ma invece trova spazio per la prima volta la ramanzina, il pistolotto degli eroi ai cattivoni e altre cose che… be’, c’è sempre un momento in cui va tutto a rotoli, ve l’ho detto.
Dopo Resident Evil 7 e specialmente il remake di Resident Evil 2 sembra che la Capcom abbia ritrovato un po’ dello spirito survival perduto.
In particolare l’estetica del remake è quanto di più convincente non si vedesse in questa saga dai tempi… di Code: Veronica!
Proprio in questi giorni è uscito il trailer del remake di Resident Evil 3: Nemesis e sembra promettere molto bene anche se lo spirito fracassone non pare estinto del tutto. Vedremo cosa ci riserva il futuro, nel frattempo mi accontento di vedere Raccon City bruciare, di nuovo.