Benvenuti nel secondo appuntamento della nostra nuova rubrica: l’Analista. Qui esaminiamo cicli, puntate o semplici scene di opere che per un motivo o per un altro ci hanno colpito.
Abbiamo inaugurato la sezione con un articolo sulla Saga di Cell tratta dal manga di Akira Toryama, Dragon Ball. Oggi cambiamo completamente media e passiamo ai videogiochi, analizzando una sequenza del pluripremiato Red Dead Redemption 2, con tutte le sue variazioni.
Il 26 ottobre 2018 Rockstar Games ha rilasciato uno dei videogiochi più attesi di sempre: Red Dead Redemption 2. Se il titolo lascerebbe presupporre un sequel, in realtà quello che ci troviamo di fronte è niente meno che un prologo.
Nel precedente capitolo, nei panni del pistolero John Marston avevamo pedinato e ucciso, su ricatto dell’FBI, gli ultimi superstiti della propria vecchia banda, adesso invece ci vengono svelati gli ultimi mesi della Van Der Linde’s Gang, prima che tutto vada a rotoli e gli eventi sfocino in quella che sarà la trama che già abbiamo vissuto.
Non è un’operazione insolita, somiglia molto a quanto fatto da Lucas con Guerre Stellari: anziché raccontare gli eventi dopo il Ritorno dello Jedi, viene esplorata la nascita del male che ha dato vita all’Impero. Anche in questo caso ci troviamo davanti un nuovo protagonista: invece di John Marston vestiamo i panni di Arthur Morgan, braccio destro di Dutch, con lui da vent’anni. Per Dutch Arthur è molto più di un figlio, così come per Arthur Dutch è molto più di un padre.
Una delle caratteristiche del gioco è quella di cambiare a seconda delle scelte del giocatore: una cattiva condotta porta a dialoghi e sensazioni diverse rispetto ad una buona condotta.
Non si tratta certo di una novità, ma il livello di dettaglio e profondità raggiunto da Rockstar non ha praticamente eguali.
Anziché puntare su finali alternativi, scelgono semplicemente di variare la percezione della realtà e le reazioni dei personaggi a seconda del nostro status. A volte sono delle battute, altre volte un’atmosfera più cupa o persino gesti che i personaggi compiono a restituirci un significato diverso per un comportamento che è invece sempre lo stesso.
Per fare un esempio, il numero di missioni non varia e chi deve morire muore comunque in questo gioco, ma cambia il modo in cui si affrontano gli eventi: a testa alta, con rammarico o persino vergogna.
Gli sceneggiatori in poche pennellate riescono a restituire la complessità del reale: i gesti sono tutti uguali ma il modo in cui li compiamo rende ognuno pregno di un significato diverso.
Non è morire che importa ma come si muore.
La scena che ho scelto di analizzare è nota come Arthur’s confession, la confessione di Arthur. In un film corrisponderebbe esattamente al momento di passaggio tra il secondo atto e il terzo; si tratta del momento interiormente più basso per il protagonista: il suo conflitto ha raggiunto il massimo livello e non può più essere nascosto perlomeno a se stesso. Si deve decidere: reagire e cambiare o accettare che non possiamo essere migliori di così? La risposta che il personaggio si dà in questo momento è il motore di tutto quello che succederà successivamente.
AVVISO SPOILER
Se non avete giocate RDR2 – male, per Dio! – sappiate che sto per rivelarvene il finale. È il momento di scegliere, proprio come per Arthur: proseguire e sapere oppure tornare su Facebook a perdere i migliori anni della vostra vita a ridere in silenzio su qualche meme.
Bravi, prendete il cappello da sella e una manciata di tabacco da masticare, cavalchiamo.
Arthur’s confession
La peculiarità, come dicevo, di questo gioco è che gli eventi saranno sempre gli stessi ma le conclusioni a cui arriveranno i personaggi, con relativi sottotesti, saranno differenti in base al nostro livello d’onore.
Questa scena in particolare ha 3 varianti che potremmo chiamare così: basso onore, alto onore, alto onore speciale.
Nelle prime due, al termine della missione The Fine Art of Conversation, la raffinata arte della conversazione, alla stazione ferroviaria dello Stato fittizio del Lemonye, incontreremo il Reverendo Swanson che, alle nostre spalle, ha deciso di fuggire. Se invece abbiamo fatto tutte le missioni di Padre Dorkins in Saint Denis incontreremo Sorella Calderòn, una missionaria dal cuore grande che ci regalerà il momento più intimo di tutto il gioco.
Nel video sono presenti tutte e tre le scene e, anche senza un’analisi dettagliata, ci possiamo rendere conto di quanto lo stesso evento possa portare a molteplici situazioni se la penna di chi scrive è abbastanza affilata.
Partiamo quindi dal primo cut:
Reverendo Swanson, Low Honor
Per avere questa scena dovete essere stati dei gran monelli. Assalti alla diligenza, omicidi, furti e ogni genere di nefandezze sono all’ordine del giorno per voi. Finora però avete giustificato il sangue sulle vostre mani in nome di un’ideale, l’utopia di Dutch, una famiglia fuori dal mondo e dal tempo. ma adesso siete cresciuti, state morendo di tubercolosi e col satanasso che vi morde le chiappe certe ingenuità non vi convincono più.
Tutte e tre le scene si aprono allo stesso modo: salutate l’ormai ex Capitano Monroe fra un colpo di tosse e l’altro, gli date dei soldi e una volta partito salutate anche Charles, dicendogli che lo rivedrete più tardi al campo.
Charles è un indo-africano, mezzo indiano mezzo nero, praticamente il peggio del peggio per i canoni razziali del west, lui che è infatti un campione degli emarginati: quello più in contatto con la natura e con il bene. C’è sempre il suo zampino nei momenti di svolta del gioco, anche se in questa sequenza l’unica azione che fa è andarsene perché “nel giorno di dolore che uno ha” bisogna riflettere da soli.
La tosse di Arthur capiamo, finalmente, non essere solo l’indicatore di una malattia che lo sta pian piano uccidendo ma anche lo spettro della sua coscienza. Più il conflitto di Arthur cresce e più si fa insistente. Quando Arthur resta solo, la tosse irrompe: ormai il protagonista non può più ignorare i propri demoni, è giunto il momento di sedersi e affrontarli.
Ecco che si offre come sparring partner qualcuno che non dovrebbe essere qui, qualcuno che è evidente sia venuto qui proprio perché sperava di non essere trovato. Ma dopotutto, chi meglio di un prete per una confessione?
Reverend!
Lo stupore è evidente, per entrambi. Il Reverendo si alza intimorito: beccato! è il palese sottotesto. E il tono di Arthur si fa subito inquisitore:«Cosa ci fate qui?». Arthur sa già e anche il Reverendo sa che Arthur ha capito: sta fuggendo. Non si tratta quindi di spiegare cosa ci fa lì ma perché. E il perché sarà il perno di tutta la conversazione.
Swanson teme la brutalità di Arthur, ha vissuto con lui per anni e sa di cos’è capace. Conosce il suo rapporto intimo con la violenza ma, nonostante tremi di paura, non si sente inferiore moralmente ad Arthur e, per quanto possibile, lo guarda dritto negli occhi, chiarendo che anche se non sembra sta facendo la cosa giusta.
«Non morirò per un mucchio di insensatezze sputate da uno stupido/folle», la doppiezza del termine fool che indica sia stupido che matto è perfetta per indicare quello che tutti – compreso Arthur anche se non riesce ancora ad ammetterlo ad alta voce – pensano di Dutch, il capo della gang, ormai anni luce dal Robin Hood con gli speroni che predica di voler essere e sempre più un bandito.
Outlwas not criminals È uno dei motti della banda.
Fuorilegge, non banditi.
La Van der Linde Gang’s è un insieme di anarchici e utopisti, non è gente che ruba per cattiveria ma per costruirsi un posto nel mondo diverso da quello che la società convenzionalmente ci offre.
Il problema è che arrivati qui ormai siete palesemente dei Criminals e accettarlo non è facile per nessuno.
Arthur è come un Brigatista: credeva di lanciare bombe e gambizzare nel nome di un sogno più grande della vita di un singolo uomo, e invece scopre che il sistema che voleva distruggere è ancora lì, solido sulle sue gambe, e le sue azioni quindi sono soltanto riuscite a procurare dolore a degli innocenti.
Il Reverendo a differenza sua lo ha già capito, è «cambiato» ci dice, lui da eroinomane e alcolizzato perduto che era ha ritrovato la luce e Dio cammina di nuovo al suo fianco. Ha provato a farlo capire anche agli altri membri della gang ma non lo hanno ascoltato, e così di nascosto è fuggito.
Il modo in cui il pastore ci dice “I’ve changed” è fiero. Si siede e ci affronta non con aria sfidante ma con consapevolezza. Ci dice implicitamente che non è agli altri che si deve dimostrare qualcosa ma a se stessi. E lui non si pente: è cambiato, davvero.
Guardate però la distanza che mantiene da noi. Siamo infetti è il sottotesto. Ad ogni livello.
Di fronte a tanta fierezza Arthur cede e si svela:
Io invece non sono cambiato, sono ancora un uomo cattivo.
Arthur capisce che la malattia era l’occasione per salvare la sua anima. Una sveglia che ha suonato nel suo cervello ma che lui ha ignorato. Ha perso l’occasione della sua vita e adesso lo può ammettere.
La telecamera stringe su di lui lasciandolo sempre più solo. Nella foto c’è a malapena spazio per il naso di Swanson, ma già nel frame successivo, mentre il prete ci catechizza, il primo piano sul cowboy è stretto e sofferente: abbiamo scelto la via del crimine e nel crimine siamo sempre soli.
Swanson prova a consolarci ma non ci serve niente di simile ormai. È il momento della verità: Arthur confessa che i suoi giorni stanno per finire. Non ha il coraggio di pronunciare il nome della malattia ma il Reverendo l’ha capito e con una finezza gli sceneggiatori al minuto 2:24 ce lo mostrano:
I know…
lo so, dice il pastore e si allontana di pochi centimetri sulla panca sia per rimarcare la distanza morale che per il rischio sanitario.
Ma Reverendo Swanson è un uomo dalla fede ritrovata e anche per lui questo momento è importante: deve mettere in atto le proprie parola. Se è cambiato questo è il momento di farlo. E lo fa.
Swanson tocca Arthur con grande compassione umana e cristiana. Anche se peccatore, Arthur è sempre stato fedele a se stesso: è un uomo, un guerriero. C’è nobiltà in questo.
È il momento della verità, è una confessione dopotutto, e Arthur non si nasconde:
È vero, è tutto quello che sono: un combattente, un assassino e un… pazzo.
Arthur è duro con se stesso ma non vittimista. Ha scelto quella vita, non l’ha subita.
E così sia.
Anziché una consolazione il prete offre ad Arthur una possibilità: ti è rimasto poco tempo è vero ma è questa la vita che ti sei scelto.
You lived your way, you’ll die your way.
Questa frase rappresenta l’uscita dal conflitto per Arthur: sei un criminale, accarezza il revolver e preparati al duello finale. «Don’t compromise», basta compromessi e tutto andrà bene.
Bene ovviamente non in senso morale ma in modo coerente con quello che sei stato.
È il momento del congedo e per quanto Swanson continui ad essere distante fisicamente da Arthur gli offre la mano. È un congedo fra vecchi compagni d’avventura ma anche il premio per l’onestà del Cowboy.
Mr. Morgan non si è nascosto e non si nasconderà, e il coraggio e l’integrità di un uomo di fronte alla morte meritano sempre il nostro rispetto.
Reverendo Swanson, High Honor
Benché questa sia delle tre la scena che preferisco meno è la più utile a capire come il protagonista di un’opera influenzi il mondo circostante. La scena è la stessa, il conflitto è lo stesso ma le reazioni dei personaggi sono completamente diverse da prima.
Adesso Arthur è un uomo diverso anche se non lo ammette a se stesso, ma è cambiato. È diventato buono, o comunque ha capito il confine tra idealismo e idiozia.
In questo momento Arthur è un vero outlaw, ma purtroppo è l’ultimo rimasto al mondo.
Guardate già l’inquadratura: Arthur e Swanson sono nello stesso frame ma il cowboy è in piedi ripreso in tutta la sua possenza. La fisicità trasmette fierezza nonostante la malattia ormai terminale, il reverendo invece è seduto lontano, nascosto e ripiegato su se stesso. È un vigliacco colto in castagna e per la prima parte della scena sarà infatti lui ad avere bisogno del perdono di Arthur e non il contrario.
Swanson si vergogna così tanto che non riesce neanche a guardare il nostro personaggio in faccia, tanta è la differenza di caratura morale fra i due in questo momento.
Il prete stavolta non si spiega ma si giustifica, pare quasi un bambino, le parole sono praticamente le stesse della scena precedente eppure il senso è completamente diverso: Swanson si vergogna di avere lasciato indietro i suoi compagni, lui che è un pastore non è riuscito a salvare nessuno. Non c’è vergogna peggiore.
E il pistolero rimarca:
Le donne? Il piccolo Jack?
queste sono le nuove preoccupazioni di Arthur, il sottotesto è in realtà per noi giocatori: la gang è compromessa, l’unica speranza è salvare il futuro: le donne che possono avere figli e Jack, il più piccolo e innocente di tutti.
Arthur però non è inchiodato sulle sue convinzioni come Dutch. La malattia gli ha aperto gli occhi e ha imparato la comprensione, la tolleranza ma soprattutto che l’uomo è una creatura debole e non va odiato per questo.
Basta un semplice tocco o, come dicono gli inglesi, un beat, per ribaltare la situazione. Arthur con una pacca cameratesca perdona l’amico, lo capisce e non lo giudica. Anzi, anche Arthur è tormentato da simili dubbi, per cui
Sediamoci e parliamone, padre.
La differenza registica è abissale: laddove Arthur prima era completamente solo adesso invece è insieme a qualcuno e l’inquadratura ce li fa sentire anche vicinissimi. Nonostante Arthur sia malato e gravemente tutti hanno piacere a stragli vicino, il sottotesto è che da un uomo così giusto non può arrivare niente di sbagliato.
Swanson ci rassicura, esattamente come farebbe un prete: non sei un brav’uomo ma non sei neanche un malvagio, il tuo viaggia andrà bene. E stavolta è un bene inteso come moralmente positivo.
Temo che il mio viaggio stia per finire.
risponde Arthur e stavolta la reazione è diversa, niente tosse, la preoccupazione di Arthur non è quella di prima, non è un “sto per morire, che peccato”, è piuttosto un “non so se riuscirò ad aiutare gli altri col poco tempo che ho a disposizione“.
Stesse parole, mondi di distanza.
La risposta del confessore non prende neanche in considerazione il discorso malattia, non c’è bisogno di parlarne perché il problema è un altro.
Per tanto tempo l’ho pensato anch’io.
Swanson parla di sé, del suo passato di tossico e alcolizzato, adesso però è un uomo cambiato. Il cambiamento è possibile, ci dice, «You’ll do what’s right», farai ciò che è giusto.
La camera si stringe su Arthur mentre Swanson ci dice cosa fare. Perché Arthur dovrà farlo da solo. quello che la camera ci ricorda è perché siamo noi i protagonisti: solo noi possiamo salvare il futuro.
Qui accade quello che deve succedere in ogni buona scena quando siamo alla resa dei conti: si esce dal sottotesto. I personaggi smettono di indovinare cosa pensa l’altro o dire una cosa per dirne un altra: si sono capiti e si smascherano a vicenda mettendo i propri problemi bene in mostra.
Il problema di Arthur è non riuscire ad ammettere a se stesso di essere cambiato perché questo significherebbe tradire Dutch, la figura più vicina a un padre per lui, e sancire così la fine del sogno per il quale si è battuto tutta la vita.
Certo, in questo modo può salvare qualcuno invece di far morire tutti, ma si tratta di gettare la spugna su un’intera vita, la propria, in favore di qualcun altro. Arthur è un uomo che vivrà sempre nei cuori di chi l’ha conosciuto ma non segnerà la storia, non lascerà la sua impronta sul mondo come invece sperava. Il momento in cui aspettative e realtà si scontrano è sempre doloroso. Andarsene così è un fardello pesante per chiunque.
È il momento dei saluti eppure non ci sono abbracci né strette di mano.
La camminata di Swanson tradisce i suoi sentimenti: si sente in imbarazzo nell’abbandonare un amico che deve affrontare un così terribile destino. È probabile che il prete adesso si senta soltanto un vigliacco.
Non più prete ma amico, si lascia andare ad un consiglio intimo che è anche un attestato di stima:
Hai vissuto come un uomo e ti sei trasformato in un brav’uomo. Se tutti potessimo essere come te…
La Rockstar, una casa il cui titolo più celebre è un gioco dove si va a puttane e si investe la gente in macchina senza conseguenze legali concrete, sforna un videogame dove insegna che la coerenza e la bontà d’animo sono ciò che ci rende uomini. Se abbiamo la forza di essere fedeli ma soprattutto onesti con noi stessi non dobbiamo temere niente, neanche la morte.
Non so voi, ma sentirmi dire qualcosa del genere proprio da loro lo trovo di particolare sollievo.
Sister Calderòn, High Honor special
Questa è LA confessione. Arthur è completamente nudo in questo video, come uomo e come fuorilegge. Sorella Calderòn rappresenta in un solo personaggio una madre, un’amica e il giudizio divino. Tutte le paure del protagonista sono in vetrina e la commozione è massima.
Per sbloccare questo video dobbiamo fare le missioni per i frati Saint Denis dove sostanzialmente aiutiamo delle persone a tornare sulla retta via, ecco che anche questo dialogo si apre coi colpi di tosse ma, anziché essere noi ad approcciare qualcuno, veniamo soccorsi.
Mister Morgan!
Ci chiama la suora mentre ancora stiamo tossendo. È la ricompensa per tutto il bene che abbiamo fatto nel gioco: stavolta è qualcuno ad aiutare noi.
Arthur prova a fare un po’ di convenevoli ma la tosse – che ricordiamo è lo spettro della sua coscienza – emerge prepotentemente, non si puo più ignorare. E così sorella Calderòn ci accudisce in un fraterno abbraccio.
Notare come siano ancora più vicini di come erano Arthur e Swanson nel video precedente.
Sì può mentire alla propria madre? Si può mentire a Dio?
Sorella Calderòn non ha legami di parentela con noi ma non possiamo mentirle per via di tutto quello che rappresenta moralmente. È una persona pura e di fronte alla purezza assoluta siamo sempre nudi.
Per cui non c’è più nulla da nascondere:
Ho la tubercolosi e l’ho presa pestando un uomo… per qualche soldo.
Ancora una volta nessun vittimismo, nessuna commiserazione, solo la cruda verità.
Tutti commettiamo dei peccati
Ci dice la suora che cerca un contatto prendendoci la mano mentre continua:
Io ti conosco.
Arthur non vuole essere consolato, con un gesto scaccia la mano della suora:
Naaa, non mi conosci.
Ma la sorella non intendeva consolarlo. Lei davvero lo conosce per quello che è:
Sei tu che non ti conosci! Perdonami ma tutte le volte che ti vedo sei sempre di qua e di là che ti fai il mazzo per aiutare qualcuno, sorridendo!
Effettivamente abbiamo appena aiutato un capitano dell’esercito a salvarsi da una morte ingiusta per una questione che non ci riguardava direttamente.
Quello che più colpisce però è il dettaglio: Arthur non si limita ad aiutare le persone ma lo fa smiling. Un sorriso che è lo specchio della sua anima.
Arthur sorride anche adesso e il conflitto personale lo travolge.
È vero, ultimamente si è dato al bene, forse è davvero una persona buona ma la sua vita è stata comunque piena di dolore. La telecamera si stringe lentamente sempre di più su Arthur per avvicinarci fisicamente alla sua sofferenza.
Aveva un figlio, è morto. Aveva una ragazza – Mary – e sappiamo purtroppo come è finita. Sua madre è morta che lui era ancora un bambino e suo padre…
Well, I watch him die, and it wasn’t soon enough…
l’ho guardato morire e non è stato presto abbastanza.
Di solito in sceneggiatura quando si deve convincere un personaggio a cambiare idea su un argomento si fa confessare un dettaglio doloroso del passato di un altro personaggio a quello da convincere.
Si cerca di creare un territorio emotivo comune ed è ciò che fa Sorella Calderòn.
La suora ci svela un dettaglio inaspettato: era sposata un tempo ma suo marito è morto. Anche lei ha avuto una grande perdita perché la vita è piena di dolore. Non si nasconde dietro una favoletta o qualche passo del Vangelo: la vita è una merda. Ma c’è anche amore e bellezza.
Ci si può piangere addosso, ma non lei: lei si è donata con ancora più forza al bene e adesso addirittura è diretta in una missione in Messico che non è esattamente il posto più facile della Terra.
Arthur è un agnello di Dio che si è perso:
Cosa devo fare?
Il conflitto lo tormenta e lui non trova né pace né risposte.
La risposta è semplice:
Potresti aiutare qualcuno? Aiutare gli altri ti rende sempre così felice!
Oltre a suggerirci direttamente cosa fare (salvare John e famiglia) ci dice implicitamente di accettare noi stessi: siamo persone generose, destinate a proteggere gli altri. Abbiamo le nostre ombre ma piangersi addosso non serve a niente, neanche crogiolarsi nel dubbio. Agisci Morgan! Combatti da uomo!
Ogni riga di questo dialogo è magistrale. Un beat dietro l’altro. C’è una battaglia in corso nell’anima di Arthur ma anche un duello di logica fra Arthur e la sorella. Arthur mette a nudo se stesso ancora una volta:
Continuo a non credere in niente.
Arthur si riferisce a più cose: a Dio, in fondo lei è una suora, aiutare gli altri è anche una questione di fede. Arthur non crede in entità superiori e anche la possibilità di un equilibrio “karmico” lo convince assai poco. Inoltre ha perso anche l’ideale di Dutch, al quale si è dedicato tutta la vita. Non ha più niente adesso, si sente un guscio vuoto.
Che fare?
Ricordate la regola: per convincere un personaggio un altro si deve confessare. Ed ecco l’asso di briscola.
Anche Sorella Calderòn ha dei dubbi. Non è mica invincibile: siamo umani, abbiamo tutti i nostri momenti di debolezza.
Ma poi le capita di incontrare una persona come Arthur: un fuorilegge che rischia più della sua stessa vita per proteggere e salvare un futuro che non può essere e non sarà il suo. Se non c’è la mano di Dio dietro questo, sicuramente c’è qualcosa di più che una semplice coincidenza.Arthur si arrende. Schiacciato da una logica non di certo scientifica ma emotivamente ineccepibile.
E allora Arthur può ammetterlo, finalmente: sono umano.
Ho paura.
Siamo uomini, siamo tutti uomini. Siamo tutti mortali. Non importa quanto si può essere giusti o spietati, la morte fa paura a tutti. Anche Micah Bell nel duello finale ce lo urla in faccia:
I’m a survivor, it’s all there is
Sono un sopravvissuto (inteso come uno che sopravvive – in contrapposizione ad Arthur che invece è uno che sta morendo per donare un futuro a qualcun altro) ed è tutto quello che c’è da sapere.
Non c’è una formula per sconfiggere la morte, e non c’è neanche un comportamento più logico di altri. Però sorella Calderòn non può lasciarci a mani vuoti dopo tutto il dolore che abbiamo affrontato, ci meritiamo una ricompensa, se non il vaccino contro la tubercolosi dicci almeno come morire.
Eccoci serviti: Fate una scommessa.
Scommettete che l’amore esista e fate un atto d’amore.
E se non volete credere in un amore superiore o universale, scommettete almeno sull’amore per le storie, e per scene come questa.