…cioè solo 2h…ma stiamo scherzando!!!1! Non ci facciamo prendere per il c**o ragazzi, pensano k siamo dei cretini. Dobbiamo ribellarci!! Se non lo compriamo tutti poi capiranno. Kiojima i miei soldi non li avrà maiiiiiiiiii!
Sono un profondo sostenitore dell’inutilità delle tirate critiche o delle ramanzine declamate a suon di pulsanti battuti sulla tastiera: fanno vecchio, fanno pedante, e, soprattutto, non servono mai a nessuno.
Non servono a chi le scrive perché non fanno altro che scatenare flame. Non servono a chi le ascolta perché se è già d’accordo non farà altro che sentire comprovate le sue teorie o, in caso contrario, solo una percentuale irrisoria di casi muterà la sua opinione. Infine non avranno nemmeno nessun risvolto costruttivo visto che, nel migliore degli scenari, non si riuscirà a sponsorizzare niente di meritevole ma si parteciperà unicamente all’affossamento del lavoro altrui.
Quindi, fedele a questa linea, mi astengo dal giudicare la pioggia di sassate piovuta in questi giorni sull’ultimo capitolo della saga di Metal Gear solid; mi limito a sottolineare un fenomeno curioso: quello della viralità dei giudizi di merito.
La viralità dei giudizi di merito è un fenomeno che vede un prodotto di commercio generico (libro, fumetto, film, videogioco, continuatepurevoi) essere sviscerato, analizzato e marchiato, prima ancora della sua effettiva uscita sul mercato, secondo un principio, puramente quantitativo, fondato sulla tipologia dei messaggi di commento inerenti all’oggetto in questione.
Tradotto: manco era uscito e ‘sto Ground Zeroes faceva schifo a tutti.
Insomma, giusto o meno che sia la valutazione sommaria, lasciatemi dire che il fenomeno è decisamente curioso oltre che abbastanza reiterato. Probabilmente il buon vecchio Hideo Kojima suggerirebbe che tutto questo è dovuto a qualche particolare nanomacchina, i cui schemi di progettazione risalgono ai tempi della guerra fredda, impiantata nel corpo di diverse figure di spicco che dirigono il flusso globale delle comunicazioni.
Oppure che è colpa dei Patriots. È sempre colpa dei Patriots.
1975. Un anno dopo gli eventi narrati in Peace Walker. Camp Omega.
La pioggia batte fitta. Un elicottero si leva in cielo; un uomo dal volto sfregiato ha appena gettato un pugno di pezze, raffiguranti il simbolo della divisione FOX, al cielo, prima di involarsi in un viaggio colmo di odio e risentimento. La voce di Joan Baez riempie il vuoto. La pioggia continua a scendere sempre più fitta, sempre più fittà. Poi: Big Boss.
Ground Zeroes è la sintesi del Kojima-pensiero e il suo autore lo vuole chiarire fin da subito con un esemplare filmato introduttivo. Un uomo solo contro forze più grandi di lui alla ricerca disperata della libertà. Libertà, nel caso contingente, di Chico e Paz (se avete giocato Peace Walker lo sapete, se non l’avete ancora fatto questo articolo cosa lo state leggendo a fare?), ma, in senso lato, intesa nel suo significato assoluto.
La saga di Metal Gear tratta di individui che inseguono la pace in modi diversi; racconta storie di fallimenti e di cadute; deliri di onnipotenza e momenti di toccante umanità, inserendo ogni tassello in un mosaico globale dall’invidiabile potenza epica.
A Ground Zeroes il compito di portare avanti questa pesante eredità preparando gli animi in vista di The Phantom Pain, e non direi che ci riesca bene. Ci riesce alla grande.
Boss è lasciato a se stesso all’interno di un’immensa base nemica. Le nuove dinamiche sandbox permettono al giocatore una discreta possibilità di scelta fra i diversi approcci possibili. La mappatura dei tasti risulta po’ ostica ma, una volta padroneggiata a dovere, il leggendario soldato ci sembrerà agile e soddisfacente da manovrare sul campo di battaglia: e, proprio in questo momento, esce fuori il cuore del gioco.
La grande arma di GZ è l’atmosfera; spaesati per la grandezza della mappa, galvanizzati dalle nuove possibilità permesse dalle meccaniche di gioco e dal Fox Engine, che fa il suo dovere ricreando un ambiente vivo e suggestivo, ci ritroveremmo a girovagare, quatti quatti, per Camp Omega, cercando di sperimentare le soluzioni a nostra disposizione, sempre con il terrore addosso di essere scoperti.
Sì, perché non importa che GZ permetta anche anche un approccio più Expendables-style e meno riflessivo, non importa che ci sia un carro armato a nostra disposizione o che altri strumenti di morte siano sparsi negli edifici presenti sul campo, quella gelida gocciolina di sudore continuerà a scendervi giù dalla fronte per tutta la durata della vostra prima sessione di gioco.
La base, immersa in una notte infinita e cullata dalla pioggia incessante, vi sembrerà un enorme strumento di tortura. Le guardie, avvolte in svolazzanti mantelle, batteranno ogni centimetro in cerca di possibili intrusi, pronte a punirvi alla minima disattenzione, e voi, in tutto questo, vi ritroverete fermi, magari rintanati dietro un ostacolo o distesi fra tenda e tenda, a ponderare attentamente ogni prossima mossa, preoccupati non solo di portare la pellaccia a casa ma anche di liberare un ragazzino mostrato come profondamente vessato e completamente abbattuto.
Un gioco di illusioni. Un gioco di illusioni costruito con una visione lucida e completa del prodotto nel suo insieme.
Non conta l’esperienza di gioco potenziale, conta l’esperienza di gioco effettiva: quello che il giocatore sarà portato a sentire durante la partita stessa. Quindi si avrà pure l’illusione, impugnando il controller, di avere la libertà di valutare una ventaglio di scenari differenti ma resterà intatta, sopra di noi, quella regia, oppressiva e appagante allo stesso tempo, capace di direzionarci.
lìbero agg. [dal lat. liber -ĕra -ĕrum]. – 1. a. Che non è soggetto al dominio o all’autorità altrui, che ha facoltà di agire a suo arbitrio, senza subire una coazione esterna che ne limiti, materialmente e moralmente, la volontà e i movimenti
Ogni estrazione effettuata porterà un momento di rilassamento da parte nostra: uno spicchio di quiete intravisto in mezzo al caos. Le stesse registrazioni, collezionabili all’interno dello scenario, contribuiranno all’arricchimento di un’ambientazione tesa al logoramento del suo protagonista. I suoni registrati, infatti, rimanderanno a orrori non direttamente osservabili ma immaginabili dal giocatore, che quindi sarà chiamato a lavorare di fantasia completando personalmente un quadro già contraddistinto dalla disumana violenza.
L’immaginazione individuale si andrà a sommare all’immaginato presente all’interno del mondo giocabile, non intaccando l’operato registico ma favorendo l’immedesimazione, fondamentale per l’ultima sezione dell’avventura.
Se, come dichiarato dallo stesso Kojima, il tema portante di Phantom Pain, sarà la vendetta, quello di Ground Zeroes è la sofferenza.
La sessione di gioco, come precedentemente detto, non risparmierà il protagonista (e il giocatore insieme a lui), ma si arriverà a un momento preciso di apparente sollievo nelle battute finali. L’istante dopo si scatenerà l’inferno.
Nella devastante scena finale l’eroe verrà metodicamente demolito, con glaciale freddezza, in un susseguirsi crescente di crudeltà.
Se il gioco di prestigio avrà sorto il suo effetto, vi ritroverete in mano un controller futile come una pistole scarica. Sarete delusi, amareggiati.
Non doveva finire così; voi l’avevate giocata bene, non è giusto.
Ecco: non è giusto.
Lo spettacolo si è concluso: il giocatore s è trasformato definitivamente nel protagonista. La sofferenza di Big Boss è la vostra sofferenza. La rabbia di Big Boss scalcia in voi. Il finale di Ground Zeroes non vi basta, avete bisogno di vendicarvi: vi serve The Phantom Pain. E anche a lui.
Sipario. Luci. Tutti in piedi, bisogna applaudire.
Lo spettacolo magari è stato breve, ma fa già parte di voi.
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