E che glie voi di’, è Tarantino!?

Trovo che il commento pronunciato dal mio sodale, appena messo piede fuori dalla sala, sia il sunto perfetto di quello che sto per andarvi a dire sull’ottava fatica (siamo a -2 dal fatidico traguardo) dell’amato e odiato, ma comunque sempre chiacchierato, Quentin Tarantino: The Hateful Eight.

Li avete presente i western? Quei film con gli indiani, le carrellate sulle infinite distese, gli assalti alla diligenza e gli inseguimenti a cavallo? Ecco, bene: levateveli dalla testa.
Il western non è altro che una copertura che permette al regista-sceneggiatore-factotum di dare libero sfogo a tutta la sua verve di dialoghista; Incipit a parte, che comunque costituisce due dei sei capitoli totali di cui il film è composto, l’intero intreccio si sviluppa all’interno dell’emporio di Minnie: una baracca in mezzo al nulla, unico riparo abitabile nel bel mezzo di una tempesta di neve.

Questo spazio claustrofobico si popolerà presto di un manipolo di grotteschi individui, uno più tarantiniano dell’altro, che (nel giro di non poco tempo visti i centossessantasette minuti di durata) riveleranno una serie di conflitti sospesi non da poco, risolti nel modo più truce immaginabile e non credo di spifferare niente nel rivelarlo, visto l’uomo dietro la macchina da presa.

Non c’è bisogno di ribadire in questa sede che Tarantino sia un reale portento come dialoghista, tutta la sua cinematografia sta lì a testimoniarlo, e anche The Hateful Eight non fa eccezione: le conversazioni tra le diverse canaglie sono declinate secondo un’eccezionale varietà di modalità dialogiche; da passaggi decisamente surreali, come la parte iniziale, si arriva a momenti definibili, eufemisticamente, come grotteschi. L’ironia più nera scorre a fiumi e viene fatto ampio ricorso a quelle situazioni volutamente fuori contesto a cui Le Iene (la discussione su Madonna) o Django (la scena dei bavagli) ci avevano già abituato.
Quel che vi ritroverete a osservare (o ad ascoltare, scegliete voi) sarà un piccolo compendio dei modi in cui è possibile istigare, provocare, insultare, dileggiare o raggirare qualcuno.
Peccato che la diluizione eccessiva della vicenda, un ritmo incostante e un generale autocompiacimento nella scrittura generale, inficino sulla resa complessiva.
L’aspetto ludico è manifesto, si comprende subito che l’autore si stia divertendo a mettere in bocca ai suoi personaggi una mole enorme di parole; il problema è che questa forma di logorrea costante che affligge ognuno dei protagonisti finisca per fiaccare lo spettatore: in più di un caso si ha l’impressioni che i botta e risposta proseguano senza una reale motivazione se non quella di inanellare una risposta sagace dietro l’altra. Il carattere artefatto di una simile scelta narrativa mina l’elemento di tensione nella trama tanto che si arriva al punto di agognare il momento di conflagrazione, costantemente suggerito in sede di regia, perdendo interesse nelle singole argomentazioni.

Fortunatamente a mettere una pezza su questi deficit di sceneggiatura ci pensa un cast semplicemente formidabile. I nomi sulla locandina bastano per farsi un’idea della caratura degli attori di The Hateful Eight, ma non era comunque così scontato riuscire a ottenere a una performance globale così convincente, anche con una squadra di tale levatura.
Scegliere è veramente difficile: l’imprevedibile Jackson, la demoniaca Leigh, l’assurdo Russel, l’imperturbabile Madsen, Goggins il freak, Roth il british, e gli altri interpreti che si alternano sulla scena, danno corpo al flusso costante di parole previste dalla sceneggiatura. Il lavoro è sugli sguardi, i singoli gesti, l’espressività e il modo di muoversi; l’attenzione è focalizzata quindi sulla fisicità dei personaggi, sull’occupare la (limitata) scena nel modo più efficace possibile: situazioni che si sarebbero rivelate altrimenti inconsistenti acquistano sostanza, diventano materia, grazie a delle recitazioni solide, ben piantate per terra.
Le espressioni di Samuel L. Jackson sono così cariche che da sole si prendono la scena, esattamente come i ghigni perversi della Leigh o gli sguardi glaciali di Madsen, tanto che viene spontanea la curiosità di vedere una trasposizione teatrale di un film che si presterebbe benissimo allo scopo, sia per l’ambientazione sia per il fatto di essere così giocato sulla qualità delle interpretazioni, oltre che sui fitti dialoghi.

Se siete dei fan sfegatati di Tarantino, la sua sanguinosa ballata degli otto ceffi non vi deluderà; si tratta di un film di quelli che avrebbe potuto girare solo lui: assolutamente sbilanciato nei suoi elementi costitutivi, volutamente esagerato, truculento fino al sadismo, senza lesinare nemmeno una generosa spruzzata di amore per il trash.
La firma del regista è più che evidente, anche se rispetto alle precedenti due sue ultime usciteInglourious Basterds (che per chi vi scrive resta il suo vero capolavoro) e Django Unchained, il guru statunitense compie un passo indietro, confezionando una pellicola appetibile solo per il suo pubblico e indigesta a una discreta fetta di spettatori.
Un discorso a parte merita invece la colonna sonora, che impreziosisce una carriera già intarsiata da una serie infinita di successi come quella di Ennio Morricone: il genio nostrano firma una serie di brani meritevoli del plauso incondizionato, dei veri film a sé stanti come L’ultima Diligenza di Red Rock o L’inferno Bianco, in grado di raccontare, coinvolgere ed emozionare anche autonomamente, donando allo stesso tempo un sapore inquieto alla pellicola; se poi nel mezzo ci finisce anche un pezzo decisamente ispirato dei The White Stripes  allora lamentarsi diventa veramente difficile.

The Hateful Eight – La recensione

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