“- E tu Checco? Tu cosa vuoi fare da grande?
– Il posto fisso. Come te!”
Inizia così Quo vado?, con uno schiaffo tirato a piena mano in faccia, e non rallenta più almeno fino al sopraggiungere dello schermo nero dei titoli.
La caratteristica irresistibile dell’ultima fatica, di quello che ormai si può considerare il comico più famoso dello stivale, è l’incedere costante di una pellicola che non rinuncia nemmeno per un attimo a ubriacare il suo spettatore di sberleffi, incalzando costantemente con un incontenibile (ma mai pleonastico) profluvio di freddure, rimandi, riferimenti, caustiche gag dall’impatto stordente.
Zalone non gioca sulla difensiva, non si concede mai un attimo per tirare il fiato, non fa ricorso a strategici giochi di gambe, attacca costantemente; esplode una serie di ganci e diretti che colpiscono direttamente ai fianchi, che spezzano il respiro, che ti piegano (dal ridere) senza che tu possa opporre reale resistenza.
Quello dell’artista pugliese è un umorismo tutto muscolare, teso a soverchiare, figlio al contempo di un lavoro di scrittura granitico: un primo livello di umorismo epidermico e subitaneo è accompagnato da una coltre di possibili allacci, spunti celati che impreziosiscono un quadro generale già sufficientemente variegato.
Ecco quindi che a una rappresentazione assolutamente impietosa della società italiana, a un indovinatissimo Lino Banfi formato Senatore della Prima Repubblica, a una non scontata coprotagonista femminile come Eleonora Giovanardi, a un intreccio che, pur nella sua semplicità, si dimostra coerente e non frammentario, si affiancano sferzate fulminanti che non risparmiano niente e nessuno (si passa da un’istantanea su La Grande Bellezza, alla satira di un diffuso e fin troppo zuccheroso perbenismo, a una parodia lampo di Celentano), senza che il quadro generale ne risenta; fino ad arrivare a un happy ending giustificato, non stucchevole o posticcio.
Ne risulta che per tessere le lodi di Quo vado? non ci sia bisogno di fare appello a nessuna forma di nobilitazione o ad ambagi pseudo-intellettualoidi: si tratta di un film scritto bene, girato consapevolmente e (soprattutto) capace di fare ridere per ottantacinque minuti filati.
Prima di lamentarsi degli sfaceli al botteghino si dovrebbe dimostrare di essere realmente in grado di fare meglio; nel mentre, in piedi vittorioso sul ring ci resta lui.