Il mio più grosso rimpianto di questa stagione cinematografica appena trascorsa è quello di essermi perso in sala Sicario: salutato da buona parte della critica come la vera sorpresa del 2015, sarebbe stata un’ottima occasione per approcciarsi finalmente al regista canadese Denis Villeneuve.
Ma altro giro altra corsa, quindi ecco che mi balza davanti agli occhi un’offerta interessante sul dvd di Prisoners, mi si alleggerisce d’improvviso il portafoglio e mi ritrovo comodamente spaparanzato sul divano con il lettore impegnato a masticare un nuovo inedito piatto.
Ammetto che la tendenza a valutare la riuscita di un film unicamente in base alla solidità del suo intreccio, che il nuovo periodo d’oro delle serie televisive ha portato con sé, non trova in chi scrive un simpatizzante: ho sempre considerato i film come un discorso aperto con l’immagine, declinabile con i registri più disparati; per assurdo credo possa esistere una bellissima pellicola che non parli di niente (almeno nel senso comune dell’espressione).
Eppure è innegabile che sia un piacere perdersi dentro un complicato intreccio le cui parti, soppesate con acribia ossessiva, si incastrino perfettamente l’una con l’altra come in un ineffabile labirinto occulto.
Ed è proprio un labirinto quello in cui si smarriscono Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal nella vicenda architettata e firmata dallo sceneggiatore americano Aaron Guzikowski:
Immaginate la vostra consueta esistenza quotidiana privata di quello a cui tenete di più sulla faccia della terra, mettiamo i vostri figli; pensate adesso di avere delle reali motivazioni per sospettare di qualcuno ma di essere, allo stesso tempo, l’unica persona a conoscenza di questi particolari (siete ancora sicuri fossero reali?). Provate ora a mettervi nei panni di un agente conscio di avere la responsabilità di due giovani vite sulle spalle, costretto a battere una strada analitica delle evidenze ma al contempo coinvolto nella vicenda umana di una famiglia in bilico sull’abisso.
Mio marito è una persona buona.
Cosa differenzia una persona integra da un essere corrotto? Qual è il confine, il punto di non ritorno da non valicare per non perdersi definitivamente?
La storia di Prisoners semina dubbi nel suo incedere: ci vengono mostrate situazioni critiche, le cui soluzioni sfuggono tanto ai personaggi quanto allo spettatore.
L’immagine del dedalo privo di uscita viene ripetuta continuamente per tutta la pellicola, autentico tema di fondo, solo che a differenza del mito di Teseo, il ruolo dell’orribile Minotauro, nell’intreccio di tetri corridoi senza fine, questa volta potrebbe essere ricoperto da uno specchio: come un virus la mostruosità si propaga, azione dopo azione, consumando tutto quello che tocca.
Non si tratta però di una delle classiche storie di caduta e redenzione, a cui il cinema americano ci ha abituato, ma di una finestra aperta verso aspetti celati dell’umano: si conclude la visione con più incertezze di prima; il cerchio si chiude, la storia acquista la sua circolarità ma continua ancora a sfuggire qualcosa. Permangono delle zone d’ombra, domande poste indirettamente restano sospese come una spada sulla testa dell’uomo davanti allo schermo.
E io cosa avrei fatto al suo posto?
La verità è che non hai il coraggio di risponderti: perché la risposta ti fa paura.
Dal punto di vista registico, Villeneuve scioglie una sceneggiatura tanto carica di criticità con un approccio radicale ma efficace: la regia in ogni sua scelta premia l’asciuttezza e la chiarezza espositiva; è messo al bando ogni tipo di pleonasmo, eliminato ogni formalismo o raffinatezza. Siamo, in quanto spettatori, messi al cospetto degli eventi narrati nella forma più diretta possibile.
Pur rinunciando a qualcosa in termini di riconoscibilità, bisogna ammettere che la linea percorsa si dimostra vincente: è proprio il contrasto tra una narrazione semplice e una storia complessa per struttura e tematiche, a provocare un senso di spaesamento. Si perdono le linee guida, preda di una sorta di labirintite interpretativa, ci si ritrova incapaci di categorizzare adeguatamente i passaggi del racconto; ma non è tanto un’ingarbugliata ricostruzione dei fatti a spiazzare, quanto un modo di narrare difforme dalla materia della narrazione stessa.
Villeneuve è anche aiutato da un trio di interpreti in grado di concretizzare le potenzialità insite nello script. Jackman è chiamato a una performance tesa: Keller Dover si trova ad affondare lentamente in una melma informe composta da rancore e senso di impotenza; le certezze si sbriciolano, a quel punto resta solo una persona sul punto di crollare definitivamente, che per risposta inizia a erutta in scoppi rabbiosi incontrollati, con i nervi visibili a fior di pelle. Si tratta forse di uno dei ruoli più complicati (e belli) della carriera di tutta la carriera dell’attore.
Dall’altro lato, Jake Gyllenhaal veste i panni dell’uomo che si appiglia con ogni sua forza alla ragione per uscire integro da un incubo a occhi aperti.
Lo statunitense trasmette perfettamente tutta l’angoscia dovuta al dover costantemente reprimere i propri istinti; il senso di costrizione generato dal continuo reprimere la frustrazione interiore è comunicato da un’espressività inquieta, che alterna sorrisetti nervosi a sguardi fissi nel nulla. Sono forse più i silenzi, rispetto alle linee di dialogo, a manifestare le caratteristiche del personaggio, ma questo non inficia sulla sua credibilità.
Nel mezzo troviamo un alienato Paul Dano, indecifrabile profilo dalla personalità paranoide, fondamentale collegamento tra le precedenti figure. Alex incarna il senso stesso dello spiazzamento: non si riesce a comprendere, non si capisce se la sua sia una posizione passiva o attiva, se sia più vittima o più carnefice; viene attaccato, deriso, ferito ma la sua corazza composta da enigmi e risposte vuote si mantiene intonsa: è il feticcio stesso della distanza che separa Keller e l’agente Loki dalla comprensione della loro condizione. Vero che a Dano basta fondamentalmente un’espressione per assolvere il suo compito, ma quella che trova è esattamente l’espressione che serve.
I titoli di coda scorrono. lo schermo si fa nero. Io resto immobile sul divano ad abbracciare il cuscino.
Mi sono probabilmente visto uno dei più bei film del 2013… solo che l’ho fatto nel 2016.
La volete sapere una cosa?
Devo assolutamente recuperare Sicario.