Il mistero dell’uomo dietro a Apple è più interessante della verità, questo sembrano dirci Aaron Sorkin e Danny Boyle, l’accoppiata sceneggiatore-regista di Steve Jobs, il film sull’inventore del cellulare più costoso sul mercato.

Avevamo tutto e lo abbiamo barattato per Whatsapp e Facebook.

Dopo il penoso film con quello che è diventato famoso perché stava con Demi Moore, a Hollywood hanno provato a dare dignità, o quantomeno interesse, a una delle figure più interessanti e controverse del nuovo millennio.

Steve Jobs, l’uomo che, più che simboleggiare la Apple, era la Apple, è colui che – ci piaccia o no – ha condizionato totalmente il modo di vivere dell’umanità intera nel nuovo millennio.
È innegabile come dopo l’uscita del primo modello di iPhone (ma già con l’iPod i più svelti se ne erano accorti) il mondo stesse procedendo in una direzione ben precisa, dove la tecnologia è sempre più parte integrante della nostra quotidianità e, in particolar modo, internet domina sempre di più i nostri scenari.
Per dirne una: qualcuno di voi ha più ricevuto una cartolina negli ultimi tre anni? O siete stati taggati nelle foto delle vostre vacanze?

Di un po’, quante volte al giorno lo apri?

Steve Jobs è una di quelle figure che alla morte ha diviso in due il mondo: genio illustre o diabolico capitalista?
La risposta a questa domanda non è chiara neppure ad Aaron Sorkin che però non si lascia scoraggiare dalla difficile sfida e, basandosi sul libro di Walter Isaacson, scrive una sceneggiatura come solo lui sa fare: dialoghi a mitraglia e tappeti sonori ovunque.

L’esperimento riuscitissimo in The Social Network (premio oscar per la miglior sceneggiatura ma avrebbe meritato anche miglior film) non riesce stavolta con Steve Jobs. Sorkin, la cui mano si avverte pesantemente, osa troppo e sforna un prodotto che starebbe meglio in un teatro che in un cinema.

Aaron e Danny scelgono di raccontarci di Steve in tre momenti identici nel tempo per luogo e motivo dell’azione: Davies Symphony All, lancio di un prodotto informatico. I tre momenti rappresentano scolte cruciali per la carriera di Jobs che presenterà due prodotti fallimentari le prime due volte e concluderà con il lancio dell’iPod.
La cosa intelligente che Sorkin fa è evitare di raccontarci ascesa, caduta e risalita di un personaggio di cui tutti ormai sappiamo tutto. Che interesse avrebbe farci vedere quanto ha sofferto Steve se tutti sappiamo che la sua carriera – per quanto stroncata prematuramente da un tumore al pancreas – si è conclusa con milioni di dollari e Apple Device in tutto il mondo?
Sorkin si focalizza sull’aspetto umano di Jobs, non sui sogni ma sul suo carattere. Sappiamo tutti che Jobs voleva rivoluzionare il mondo dell’informatica e che ci è riuscito, ma non tutti sanno quanto Jobs fosse negato nelle relazioni umane, quanto fosse bastardo con i colleghi e la famiglia, che avesse un divorzio alle spalle e una figlia in terapia, che avesse sputato in faccia agli stessi amici che ne avevano permesso l’ascesa a “uomo del domani”.

Nel film Jobs (magistralmente interpretato da un Fassbender in forte odore di Oscar) è ripreso nell’attimo prima di presentare un prodotto, e in quell’attimo amici, colleghi e familiari lo braccano per una serie di motivazioni. Steve risponde a tutti per le rime tranne all’assistente Joanna Hoffman (Kate Winslet) unica vera sparring partner nonché grillo parlante.

I dialoghi, autentico marchio di fabbrica di Aaron Sorkin, suonano stavolta troppo artificiosi. La scelta di riprendere il film come una sorta di infinito piano sequenza non paga, il risultato sembra Birdman ma senza la regia di Inarritu. Non solo, la scelta registica unita ai dialoghi di matrice sorkiana spersonalizza tutti i protagonisti che sembrano un’unica intelligentissima voce, casualmente un contraltare perfetto per un altrettanto brillantissimo e arguto Jobs.
So bene che la critica “le persone non parlano così nella realtà” viene fatta costantemente a Sorkin e lui, giustamente, manda sempre tutti a cagare spiegando che i dialoghi devono essere narrativi e non realistici. Però i dialoghi devono restituire un’idea di realtà anche se sono fittizi, un numero che a Sorkin è riuscito benissimo in The Social Network e in The Newsroom, ma non in Steve Jobs.
La prima fenomenale mezz’ora del film fatta di un ritmo serratissimo, che illude lo spettatore di essere di fronte a un capolavoro, si perde nell’ora restante del film dove le situazioni e i dialoghi stessi si ripetono stancamente uguali senza aggiungere niente di nuovo al personaggio. Il personaggio ha un solo movimento in tutto il film, precisamente nel finale, dando la sensazione che tutto quanto avrebbe potuto essere uno splendido mediometraggio se non addirittura un corto.

La nota positiva è però che Sorkin non dà una risposta su chi fosse Jobs, non prende posizione sul dilemma Genio/Stronzo ma mostra quel che in fin dei conti Jobs è stato fuor di ogni dubbio: un grande direttore d’orchestra.

Steve Jobs: Una volta ho incontrato Seiji Ozawa al Tanglewood. Un acclamato direttore di orchestra. Abilità e sfumature empie. Gli chiesi cosa fa esattamente un direttore che un metronomo non possa fare. Soprendentemente lui…
Steve Wozniak: Lui non batte a oltranza?
SJ: Giusto. No, lui ha detto:”I musicisti suonano i loro strumenti, io suono l’orchestra”.
SW: Sembra una cosa che suona bene ma in realtà non ha senso.

Steve Jobs: la recensione
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