Cacarsi addosso dalla paura è un’esperienza che capita a tutti nella vita, con la differenza che ad alcuni, questa orribile sensazione, questo desiderio di percepire fiumi ingiustificati di adrenalina schizzare in circolo pompati da una tachicardia sfrenatissima, piace.
L’orrore è qualcosa che a certe persone, come si dice dalle mie parti, garba. Queste persone sono le stesse che attendono con trepidazione l’ultimo libro di Stephen King, che leggono mensilmente Dylan Dog, che sanno a memoria le filmografie di Hitchcock e Dario Argento e che, per raggiungere l’orgasmo, devono copulare con la colonna sonora di Profondo Rosso in sottofondo.
Ma veniamo al sodo.

La nostra rubrica del Venerdì, come voi affezionatissimi nerdoni di certo sapete, si occupa di videogiochi. Oggi ci occupiamo del primo vero grande horror game per console: Resident Evil.

Serve Qualcosa? Stavo mangiando…

Era il 1996, un anno di transizione fra il mondiale del ’94 in cui il più grande calciatore italiano di tutti i tempi fece l’unico sbaglio della sua carriera (che non gli fu mai perdonato) e il mondiale del ’98 dove i nostri cugini mangiarane vinsero la coppetta del nonno mondo.
All’epoca la mia unica preoccupazione era non farmi beccare dalla maestra con le dita nel naso durante le ore di lezione, ma quell’estate, o forse un paio di estati dopo, avrei acquistato il mio primo amore videoludico.
Non vi nascondo che Resident Evil, all’epoca noto come “il giochino con gli zombie”, è stato il mio primo e forse più grande amore in questo campo, e chi mi conosce bene sa che io l’horror non lo posso proprio tollerare: non guardo i film di genere al cinema, non leggo spazzatura letteratura di genere e giusto giusto nei fumetti mi sparo Dylan Cane perché… perché se ne comprate uno sceneggiato anche solo per 1/4 da Tiziano Sclavi capirete.
Insomma, quindi, cosa può aver spinto un “anti horror” come me a innamorarsi di questa creatura?

Ripeto, siamo nel 1996 e il genere horror non è una novità per nessuno, in fondo neanche nei videogiochi si può parlare di questo gioco come il primo del settore, in precedenza se ne erano visti altri, su tutti Splatter House e Castelvania, ma la loro grafica non permetteva quel sano moto intestinale incontrollato che costringe il sottoscritto a giocare questa saga prevalentemente seduto sulla tazza.

O mio Dio, mamma mia, che paura.

La prima innovazione portata da Capcom fu quindi la grafica: completamente tridimensionale. La seconda invece fu il contesto: non più vampiri, fantasmi o pupazzi incappucciati con le motoseghe piantate nelle braccia (vedi foto sopra) ma uomini. E che uomini? Redivivi.
Uno dei più grandi film horror di tutti i tempi è il mai dimenticato (soprattutto da chi l’ha visto) “L’alba La notte dei morti viventi” di G. Romero dove si parla di un gruppetto di persone che cerca di sopravvivere ad un’orda di zombie bulimici.
La Capcom ha attinto a piene mani da questa bibbia dell’horror e, fondamentalmente, si potrebbe ridurre il videogioco ad un riadattamento per playstation del film succitato; questo però non deve sminuire la grande qualità di quest’opera.
La trama è piuttosto semplice: siamo nel 1998 (quindi due anni nel futuro, e alla luce di ciò che succede questo è un motivo in più per farsela sotto) nella campagna di un’ipotetica cittadina americana, Raccon City, stanno accadendo cose strane. Ultimamente sono stati rinvenuti corpi di persone che riportano lacerazioni sul corpo, segni di colluttazione e… di morsi. Tutti gli incidenti in questione sono accaduti nei pressi di una grande villa di proprietà di un non precisato pseudo-nobile. Sul posto (una volta tanto) invece di un poliziotto scemo e un po’ sfigato viene mandata un’intera squadra del corpo speciale del Raccon City Police Department: la S.T.A.R.S. (Special Tactics And Rescue Service). Il corpo inviato, il Team Bravo, però interrompe improvvisamente le comunicazioni, cosicché viene inviata ad investigare un’ulteriore squadra: il Team Alpha. Qui comincia il nostro gioco.

Immaginate di avere 8-10 anni, e prima d’ora non aveva mai giocato a un horror che fosse anche solo lontanamente verosimile, quanti infarti state avendo?
Curiosità: il video fu giudicato troppo violento dalla censura, così in Italia il filmato uscì in bianco e nero e, con alcune scene tagliate, come ad esempio il cadavere maciullato del povero Joseph. Questo destino è toccato a quasi tutte le nazioni Europee, segno che la casa Giapponese aveva fatto un buon lavoro. Da notare anche che per rendere più espliciti l’orrore e la violenza si scelse di ricorrere ad attori in carne ed ossa anziché costruire un filmato in computer grafica perché quest’ultima, per evidenti motivi tecnologici, non era abbastanza credibile. Questa geniale trovata purtroppo non sarà più ripetuta nei titoli successivi.
Il filmato in questione rappresenta l’inizio con Chris Redfield, uno dei due protagonisti giocabili, l’altro è Jill Valentine (ti amo).
A seconda del personaggio nel filmato cambia solo la voce narrante, non le scene, cambia però il finale: con Chris nella scena iniziale ci saranno a fargli compagnia Albert Wesker e Jill Valentine (ti amo), Mentre con la stupenda Jill ci ritroveremo a fianco di Barry Burton e Chris Redfield.
La scelta del protagonista non è indifferente, ma servirà a selezionare il livello di difficoltà del gioco: Jill (ti amo) facile, Chris difficile.
Ognuno porta con se vantaggi e svantaggi: la gnoccona avrà vita piuttosto facile in quanto avrà come partner di supporto il cazzutissimo Barry, dovrà risolvere meno enigmi, potrà aprire alcune porte e vari cassetti con il suo fidato grimaldello, troverà più munizioni e medikit, ma sparerà più lentamente e goffamente e avrà una resistenza decisamente limitata agli attacchi; Chris invece come partner di supporto avrà la diciottenne infermierina Rebecca Chambers, unica sopravvissuta del Bravo Team, dovrà risolvere più enigmi, troverà tipo una munizione ogni cento anni e medikit mai, dovrà trovare chiavi per aprire anche le porte più stupide mentre i cassetti non li aprirà mai, avrà però una mira infallibile, sparerà più velocemente e avrà una maggiore resistenza agli attacchi. Fra l’altro Chris all’inizio non ha neppure la pistola, gliela lascerà Jill (ti amo) sul pavimento dell’ingresso.
Procedendo con la trama verranno fuori un sacco di cose ganze: comincerete a trovare i cadaveri dei membri del Bravo Team, scoverete varie e interessanti creature affette da disturbi alimentari, rinverrete testimonianza (diari, appunti, cartelle cliniche) dei vari impiegati presso la villa (è interessante vedere che lì dentro tutti tengono un diario, anche il giardiniere) e scoprirete che la villa non è una semplice casa, ma un centro sperimentale dove qualcuno sta, o stava, conducendo esperimenti di biogenetica poco chiari. Alla fine si farà pure il nome di questo qualcuno, o meglio di questa società: la Umbrella Corporation, e questo nome diventerà leggenda da quel momento in poi.
Penso di non spoilerarvi nulla svelandovi questi brandelli di trama in quanto Resident Evil è una delle saghe più amate e giocate nella storia dei videogiochi, fa parte delle grandi serie di cui tutti noi disponiamo almeno un numero sulla mensola di casa, come Metal Gear Solid o Final Fantasy. Ogni uscita è attesa ancora oggi con grandissima impazienza e, forse anche per questo, le aspettative sono spesso troppo alte e questo ha portato gli ultimi numeri a rivelarsi via via più deludenti.
L’idea e il gioco originali però restano tutt’oggi fortissimi e validi, tanto che la Capcom ha più volte rieditato questo titolo su piattaforme più recenti cambiando però anche qualcosa a livello di gioco, cosa che ha reso, secondo me, queste edizioni più fredde e meno spettacolari.
Sarò un nostalgico, ma quei difetti della grafica o quei movimenti obbligatoriamente impacciati (un’ora e mezzo per voltarsi perché ancora non c’era la giravolta a 180°, vedi come ti caghi quando hai i cani zombie che ti scodinzolano attorno) la mira manuale e non automatica, i dialoghi da B-movie, tutto contribuiva a rendere il titolo sia verosimile che chiaramente falso, lasciando al videogiocatore l’importantissimo lavoro di fantasia dovuto alla sospensione dell’incredulità; a differenza dei titoli iperrealistici di oggi che obbligano alla ricerca del pelo nell’uovo anziché accettare che si tratta solo di un passatempo con cui divertirsi e che in fondo neanche la vita è credibile alle volte, perché dovrebbe esserlo un videogioco?

Checché se ne dica, questo piccolo capolavoro Survival-Horror (termine coniato dalla stessa Capcom per questo titolo) ha segnato un’epoca e ha posto le basi per tutti i futuri videogiochi Horror, dall’ambientazione claustrofobica, dall’attenzione alla trama e alla caratterizzazione dei personaggi (il doppiogiochista Wesker perennemente raffigurato coi Rayban Aviator sarà un villain talmente amato da trasformarlo infine in un cattivo affrontabile), dallo stile di gioco con i suoi enigmi di vario tipo (alcuni decisamente troppo cervellotici).
La saga ha ottenuto talmente tanto successo che non solo sono usciti un quantitativo spropositato di numeri ed edizioni per console, ma c’è un intero mondo dietro che ha dato allla luce romanzi, fumetti e film.
Ai raduni nerdofili poi non manca mai uno stand della Umbrella, quasi fosse una società realmente esistente, e i suoi Mercenari sono fra i personaggi più cosplayerizzati.
Se dubitate ancora della potenza di questo titolo vi lascio con questa perla autobiografica: quando comprai questa bellezza per playstation1 avevo tipo 10-massimo11 anni, il gioco era completamente in inglese (e infatti era in offerta alla MediaWorld). All’epoca non ero un esperto poliglotta come oggi («How are you?», «The cat is on the table».) ma mi innamorai subito di Jill Valentine di questo piccolo capolavoro (e di quella gnoccona di Jill Valentine).

Non siete ancora convinti? Bene allora la prossima recensione vi parlerò di un gioco che sicuramente incontrerà i vostri fetidi gusti: PaRappa The Rapper.

Venerdì retro: Resident Evil
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