Sindrome di Fregoli: Disturbo psichiatrico, detta anche fregolismo, caratterizzato da delirio di trasformazione somatica, proiettato sulle persone del proprio ambiente; prende il nome dall’attore di varietà ital. L. Fregoli (1867-1936), notissimo trasformista. Il paziente crede di riconoscere come amici persone estranee o, più raramente, che persone note abbiano alterato la loro fisionomia per non farsi riconoscere.
Fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/sindrome-di-fregoli_(Dizionario_di_Medicina)/
Fregoli è il nome dell’albergo dove è ambientata, quasi per intero, la storia raccontata in Anomalisa: quando si dice essere chiari fin da subito.
Anomalisa è l’ultimo film scritto e diretto da Charlie Kaufman, autore noto per avere collaborato con Spike Jonze (Essere John Malkovich) come sceneggiatore oltre che per aver firmato il particolarissimo Synecdoche, New York, prodotto anche grazie a un crowdfunding su Kickstarter e girato con la tecnica dello stop-motion, avvalendosi quindi non di attori in carne ossa ma piuttosto di pupazzi.
Michael è un uomo in piena crisi esistenziale, annoiato dalla vita e ormai incapace di scorgere il benché minimo motivo di interesse nelle sue giornate. Le persone gli appaiono con le sembianze di una schiera di inespressivi volti identici, che si rivolgono a lui utilizzando il medesimo asettico tono di voce; delle bambole che ripetono meccanicamente gesti futili, all’interno di una soffocante routine.
La notte prima di un’importante conferenza che il protagonista, motivatore di successo, è stato chiamato a tenere per un pubblico composto da operatori di call center, vagabondando per i corridoi dell’albergo Fregoli, Michael verrà colpito da una voce finalmente diversa dalle altre: quella della svampita Lisa.
Da un simile riassunto, si potrebbe pensare di trovarsi davanti a una variante, magari esteticamente elaborata, della consueta commedia d’amore all’americana; niente di più sbagliato.
Anomalisa è piuttosto uno spaccato di vita di un uomo affetto da una reale patologia (la sindrome di Fregoli, per l’appunto), ma è anche una disamina interessante del concetto d’amore per come questo viene comunemente proposto: un legame unico, singolare e speciale tra due entità.
La ricerca dell’elemento singolare, non replicabile, è l’ossessione di Michael: l’uomo vede nell’altro solo un mero esecutore di pattern, un operatore impersonale, con cui consumare solo sterili convenevoli; a muoverlo è la convinzione che nella vita deve esserci qualcosa in più: un fattore nascosto in grado di dare un senso compiuto a tutto, di dare spessore a un’esistenza altrimenti bidimensionale. Questa ricerca “dell’evento illuminante”, si configura inevitabilmente, agli occhi dello spettatore, come forzata: finta tanto quanto i volti di bambola che circondano il protagonista.
La qualità dello sceneggiatura è testimoniata dal fatto che Kaufman non scioglie volutamente nessuna delle criticità che si presentano durante lo sviluppo della storia: il racconto è sempre teso a mostrare una situazione personale, un quadro umano ricco di problematicità che non possono risolversi con l’ausilio dell’artificio narrativo perché questo è evidentemente incapace di venire realmente a capo di una condizione così sfaccettata, sia che venga declinato con il consueto happy ending o piuttosto con una conclusione dai risvolti nichilisti.
L’occhio registico si muove in maniera raffinata, favorendo una lenta comprensione delle meccaniche psicologiche che regolano le azioni di Michael. Il ritmo del racconto, sapientemente dosato, cede sporadicamente il passo a brusche accelerate, in concomitanza con i momenti di maggiore crisi che non risparmiano momenti di forte inquietudine, riportando paradossalmente alla mente , visti i generi così distanti, immagini e atmosfere del migliore Philip K. Dick: costante è il parallelo tra l’individuo, preso nella sua quotidiana realtà sociale, e l’automa. L’utilizzo di pupazzi, al posto di attori veri, accentua l’angoscia generata da un’umanità de-personificata: una legione di gusci vuoti replicati in serie, di cui il protagonista teme di far parte.
In questo quadro soffocante, Kaufman inserisce efficacemente una delle scene di sesso più delicate e credibili degli ultimi anni: nel momento forse più alto della pellicola, il regista riesce a ritrarre meravigliosamente, non facendo nessuna concessione agli stereotipi Hollywoodiani, tutto quel mosaico di incomprensioni, dolcezze, insicurezze e intimità che caratterizzano l’atto sessuale. Un momento di cinema nella sua forma più pura, oltre che una scena in grado di andare a toccare le corde emotive dello spettatore, senza scadere in retorico sentimentalismo.
Se dal punto di vista registico il lavoro svolto in Anomalisa non si può che applaudire, qualche problematicità esce fuori andando a valutare la resa complessiva dello stop-motion. Da un lato, come già detto, i pupazzi di Kaufman sono perfetti per instillare un profondo sentore di spaesamento: l’aspetto palesemente finto e le espressioni robotiche provocano effettivo disagio, fin dalle prime battute.
Il rovescio della medaglia è che tutto quello che si guadagna in forza suggestionante si perde in potenziale recitativo: in diverse scene, come lo sproloquio di Michael durante la conferenza, si avverte la mancanza di un ventaglio espressivo più ampio; l’esiguo numero di animazioni spendibili dai modellini, fanno sentire la mancanza di attori in carne e ossa, in grado di donare maggiore solidità e (di conseguenza) profondità all’interpretazione. Nella sua forma finale, l’esperimento estetico portato avanti in Anomalisa appare sicuramente coraggioso, ma forse non completamente coerente con le esigenze narrative della pellicola.
Non è semplice raccontare gli aspetti intimi dell’umanità; Non è semplice perché richiede un lavoro di autoanalisi non scontato e soprattutto profonda umiltà: spesso infatti ci si deve arrendere al fatto che non si possa raggiungere una definitiva soluzione del problema, ma al massimo il nostro successo sarà dato dall’essere riusciti a restituire un quadro sincero del problema stesso.
Ecco, Anomalisa si potrebbe descrivere utilizzando proprio questo aggettivo: un film sincero.
Qualità da tenere sotto la massima considerazione, vista soprattutto la sua estrema rarità.
Interessantissimo tanto l’articolo quanto il film che tratta, di cui non conoscevo neanche l’esistenza.
Adesso NECESSITO assolutamente di vederlo.
Non so se effettivamente è stato sviluppato così, ma da come si legge sembra fare anche tanti cenni alla teoria della “Uncanny Valley”, che è tanto semplice quanto complessa allo stesso tempo, come sembra appunto essere questo film.
Grazie del consiglio!!