Tra il ‘95 e il ‘99, in epoca PlayOne per intenderci, giochi come Resident Evil, Tombi, Metal Gear Solid, Final Fantasy VII, Harvest Moon Back to Nature, stupivano il giocatore con l’avvento della terza dimensione e di avventure ampie e strutturate: finalmente “gli omini” cominciavano a poter compiere un insieme di azioni più complesso del semplice salta-schiva-spara-prosegui-ripeti.
Il lancio di PlayStation 2, Xbox e Game Cube non portò delle vere novità: semplicemente spinse al limite le possibilità grafiche e interattive di quel tipo di giochi già visti nelle precedenti generazioni.
Nintendo Wii, al contrario, mostrò nuove strade agli sviluppatori: qualcuno si limitò a copiare (Kinect) qualcun altro capì e andò avanti, sviluppando la VR.
Oggi c’è chi sostiene la VR sia il futuro: chi vivrà vedrà.
In questo momento, viviamo un’età videoludica che si sta sviluppando in due cammini: da una parte la sopracitata VR, dall’altra The Last of Us. Da una parte meraviglia tecnologica, dall’altra scrittura di altissimo livello.
Eppure entrambi i percorsi puntano in un’unica direzione: l’immedesimazione totale del giocatore all’interno del gioco.
Se nella VR questo scopo è evidente (il protagonista si muove in base ai nostri movimenti reali), in The Last of Us lo scopo è farci provare ciò che prova Joel, così che il suo viaggio sia il nostro, il suo dolore sia il nostro, la sua terribile ed egoistica scelta finale sia la nostra terribile scelta egoistica finale.
Sembra quindi di essere arrivati a un nuovo tipo di giochi: non possiamo più dire “è solo un gioco”, “queste cose non sono reali”- ma aveva poi senso dirlo anche prima? – adesso il livello di coinvolgimento è tale che queste cose sono reali o almeno è reale il modo di esperirle.
Alla fine di TLOU avrei veramente ucciso per Ellie.
Ovvio, la realtà è filtrata dal videogioco – non ucciderei mai nessuno e so benissimo che è ingiusto farlo – e TLOU non ha mai messo in discussione i principi che nutro nella vita reale, però sentivo nelle mie scelte un peso maggiore.
L’innalzamento della scrittura dei videogiochi ha portato i giocatori a interrogarsi su ciò che stanno facendo e a misurarlo con la propria morale. Siamo diventati responsabili, esattamente come degli attori, e le nostre scelte hanno potere di vita o di morte, siano esse state fatte per un bene superiore o per capriccio; qualcuno ci rimetterà così come qualcuno ne guadagnerà, come nella vita reale.
Ed ecco che in questa nuova filosofia di gioco, Life is Strange spinge un po’ più in là ciò che TLOU ha fatto.
In The Last of Us le nostre scelte ci appaiono libere quando in realtà sono obbligate. Non c’è un finale alternativo a quello previsto dagli sceneggiatori, anche se noi sentiamo che quella è la cosa giusta da fare. Qui sta la magia.
Ma in Life is Strange ogni scelta ricade sulle nostre spalle, ci sono diverse soluzioni possibili e nessuna è mai davvero giusta, come nessuna è mai del tutto sbagliata. Ciò che sembra giusto in partenza può avere risvolti terribili col perseguo del gioco. E qui li cose si fanno complicate.
Life is Strange è un’avventura grafica a bivi, o più semplicemente: un punta e clicca.
Sviluppato da Dontnod Entertainment e pubblicata da Square Enix, racconta una settimana piuttosto particolare della vita di Max Caulfield, ritornata da Seattle dopo cinque anni nella sua cittadina natale, Arcadia Bay, paesino fittizio nell’Oregon.
Il gioco è uscito a episodi, per un totale di cinque, e sia questa particolarità, sia il taglio cinematografico con tanto di titoli di coda finali e trailer dell’episodio successivo, rendono tutto molto simile a una serie Tv. Non a caso, quando lo vidi la prima volta a Cartoons On The Bay, lo descrissi ai miei amici come un episodio di Dawson’s Creek giocabile.
La scelta (azzeccata) al di là di motivi stilistici è nata per una mancanza di fondi di sviluppo: la Dontnod non aveva i soldi, così decise di rilasciare un episodio alla volta raccogliendo via via i pareri del pubblico (insieme ai denari).
La protagonista, Max Caulfield (non a caso lo stesso cognome di un certo Holden), ha 18 anni ed è appena entrata in un prestigioso istituto di fotografia. Dopo un breve prologo scopre accidentalmente di avere un potere particolare: può riavvolgere il tempo. Il potere funziona in due modi: Max può tornare indietro per un breve periodo, di circa un minuto o due al massimo, oppure, attraverso delle fotografie, tornare all’esatto momento in cui le foto sono state scattate.
Il gioco quindi ruota su uno di quegli interrogativi impossibili alla quale però tutti abbiamo pensato almeno una volta: cosa farei se potessi tornare indietro nel tempo e correggere tutti i miei sbagli?
Life is Strange dà corpo a questa domanda seducente permettendo al giocatore di correggere ogni azione a ogni bivio. Spesso per andare avanti nel gioco dovremo parlare con persone che ci riveleranno informazioni utili solo se utilizzate tornando indietro nel tempo.
Sembra facile, anzi sembra bellissimo, eh?
Invece Life is Strange dimostra solo una cosa: per quanto si possano correggere gli errori, non è detto che a una buona azione corrisponda un ritorno positivo del Karma. Ci saranno persone che moriranno proprio perché ci siamo comportati bene con loro e viceversa. Così come aver fatto un favore a un amico porterà sfortuna a qualcun altro. E via discorrendo. Alla fine, qualunque siano le nostre scelte, proveremo comunque dei rimpianti. Proprio come nella vita reale. Tutto il gioco è riassunto nel titolo: la vita è strana. Già, perché neanche i super-poteri ti concedono di passarla liscia e nella vita c’è spazio tanto per le gioie quanto per i dolori.
In questo, Life is Strange, pur senza avere alcuna velleità pedagogica, si rivela un videogioco eccezionalmente educativo. L’esperienza ludica predispone il giocatore – potenzialmente un teenager come Max – all’accettazione degli eventi. Il gioco mostra come la vita sia fatta di luci e ombre, gioie e dolori e non ci sia una soluzione semplice neanche per una persona dotata di super-poteri.
La tematica principale del gioco però è imparare ad accogliere il dolore come parte intrinseca della vita: non esistono trucchi, neanche per Max, figuriamoci per noi.
Oltre a una scrittura precisa, ben programmata e realistica, la grafica dai colori pastello e la colonna sonora Indie Folk curatissima (il supervisore è stato Jonathan Morali dei Syd Matters, qui la lista completa dei brani) ci trasportano in un viaggio che ha un sapore intenso e preciso: la malinconia.
C’è stato un momento esatto in cui ho capito che avrei amato questo gioco, e ho scoperto che l’identico effetto lo hanno avuto milioni di persone – leggendo i commenti su YouTube -, ovvero quando, finita la prima lezione in classe, Max prende le cuffie e ascolta To All of You, che esplode nelle casse mentre scorrono i titoli di testa.
Il dolore e la gioia dell’adolescenza; la forza e la spensieratezza di quegli anni in cui ci sente immortali, collassano di fronte all’ineluttabilità del destino di Max e compagni, provocando quel retrogusto dolce-amaro della malinconia che ci accompagna per tutta l’avventura.
Esistono, a mio avviso, due possibili sensazioni dominanti a seconda dell’età in cui si gioca a LiS: la nostalgia, per coloro (come me) che l’adolescenza l’hanno superata e si trovano a riviverla, forte come un pugno allo stomaco, in tutte le sue sfumature agrodolci e la frustrazione ma anche l’incoscienza che genera volontà di combattere contro giganteschi mulini a vento, se lo si gioca da adolescenti.
Per comprendere appieno ciò di cui sto parlando è però necessario analizzare il finale. Sì, perché quello che rende Life is Strange un gioco indimenticabile, anzi, una vera e propria esperienza di vita è il bivio finale. È una scelta morale enorme alla luce della quale rivalutare l’intera avventura, oltre a essere un finale totalmente anti ludico.
Per questo, chi volesse evitare di rovinarsi la partita, eviti di leggere sotto la bellissima SPOILER LINE che sto per tracciare.
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SPOILER ALERT
CONSIDERAZIONI SUL FINALE DI LIFE IS STRANGE
Per tutta la partita ci siamo ritrovati a saltare avanti e indietro nel tempo come stambecchi, sperando, in questo modo, di salvare o migliorare la vita di qualcuno. Tutto quello che abbiamo scoperto è invece l’opposto: non si può evitare l’inevitabile.
Come detto poco sopra, la storia di Life is Strange si basa sul dolore e sulla sua accettazione, in particolare sul dolore del lutto. Tutta l’avventura può essere infatti letta come il calvario di Max per accettare che Chloe, la sua migliore amica, muoia. Durante ogni episodio, muovendoci nel tempo, scegliamo con chi allearci nella ricerca della verità su Rachel Amber, salviamo – se decidiamo di salvare – la vita a chi possiamo, e siamo convinti che questo faccia la differenza sul risultato finale. Niente di più sbagliato.
Non a caso ho parlato di finale anti ludico: il bivio finale (Salvare Chloe sacrificando tutta Arcadia Bay; Tornare al principio del gioco e lasciar morire Chloe salvando però tutta la città) annulla completamente gli sforzi fatti in cinque ore di gioco.
Ma ciò che davvero affascina è come l’architettura del finale venga costruita un pezzo alla volta.
Nei primi episodi, ci sembra di assistere a un classico punta e clicca dove l’esperienza che accumuliamo e i nostri sforzi vanno pensati secondo una morale buonista, tipica di certi prodotti adolescenziali.
Per esempio, quando nel primo episodio tiriamo la vernice addosso a Veronica per farla spostare possiamo decidere se sfotterla o consolarla. Istintivamente, un videogiocatore anni ‘90 come me ha pensato subito che consolarla avrebbe portato un qualche vantaggio – Veronica smetterà di bullizzarci? Ci aiuterà con una svolta del gioco? – invece l’averla consolata la convincerà, in un secondo momentom a fidarsi di noi quando le diremo di stare alla larga da Nathan – convinti che sia Nathan l’assassino del gioco -scelta che la spedirà dritta tra le braccia del vero assassino.
Questa è solo una di una serie di esempi dove a una buona azione non ne corrisponde necessariamente un’altra. Come nella realtà, il nostro “fare la differenza” può rivelarsi una fortuna per qualcuno e una sfiga per un altro. A una buona azione può seguire un favore o una serie di incomprensioni – come quando evitiamo di dare una brutta notizia a qualcuno per non abbatterlo ulteriormente e poi questo ci rimane male perché lo è venuto a sapere da altri.
Non è un caso, o almeno credo, che le uniche scelte ininfluenti nel gioco siano quelle in cui è palese che attivamente possiamo salvare la vita di qualcuno – come con Chloe sul tetto della scuola o con Frank nella rissa al camper -, Perché la morte, nell’ottica proposta dal gioco, è l’unico evento di fronte al quale siamo impotenti. La morte e il dolore sono un evento a cui tutti dobbiamo partecipare e la loro ineluttabilità va accettata come conseguenza della vita: questo ci rende adulti.
Il tornado e le catastrofi che si abbattono su Arcadia Bay sono infatti generati dal nostro stesso continuo andirivieni nel tempo, pasticciando col continuum. È la metafora strepitosa di come l’invincibilità e l’idealismo sfrenato adolescenziali siano una farsa e che la realtà è qualcosa di più grande di noi.
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