L’aretino Giorgio Vasari adoperò il termine gotico per indicare in modo negativo l’arte degli anni precedenti il Rinascimento. La maniera gotica era percepita come mostruosa e barbara: un’architettura non massiccia, ma aerea e tendente al verticalismo – quasi a voler sfidare il cielo. E mostruosa, barbara, radiante – un gioiello di vetro istoriato – è la prosa della Carter. Uno scrigno o un prezioso, solenne reliquiario dalle pareti di pura luce. Un’impressione di leggiadria e maestosità che nell’edizione italiana de La Camera di Sangue e altre storie di Angela Carter edita da Corbaccio – tradotta da Susanna Basso e Rossella Bernascone – suona invece “orpellica” e stonata.
What big arms you have.
All the better to hug you with.
Every wolf in the world now howled a prothalamion outside the window as she freely gave the kiss she owed him.
What big teeth you have!(…)
All the better to eat you with.
The girl burst out laughing; she knew she was nobody’s meat. She laughed at him full in the face, she ripped off his shirt for him.
La musicalità roboante di questo estratto – The Company Of Wolves/La compagnia dei lupi– in cui la Carter riformula e distorce il famigerato dialogo con il lupo della Cappuccetto rosso di Charles Perrault, versione archetipica che la Carter ha “dinamitato” e da cui ha modellato il suo racconto, non può competere con la disarmonia impacciata della traduzione italiana.
Che braccia grandi che hai.
Per abbracciarti meglio.
Ogni lupo sulla terra ora intonava il canto di nozze fuori della finestra, mentre lei disinvolta gli diede il bacio che gli doveva.
Che denti grandi che hai. (…)
Per mangiarti meglio.
La bambina scoppiò a ridere; sapeva di non essere il bocconcino di nessuno. Gli rise in faccia, gli sfilò la camicia e la gettò nel fuoco, tra le ceneri dei suoi stessi vestiti.
Chi non conosce il testo nella sua eufonicità natia, non può definir barocca la prosa della Carter, appesantita da peduncoli superflui solo in apparenza: per quanto la narrazione sia particolareggiata e tesa a l’irraggiungibile, la decorazione non ha mai il sopravvento sulla funzione. Non un solo aggettivo è di troppo, tutto è volto a innalzare atmosfere, e affrescar personaggi. Un modus narrandi gotico – non di rado tetro e solenne – ma soprattutto svettante: una foresta di simboli in cui germoglia un linguaggio allusivo e oscuro – da molti giustamente definito intertestuale – che volta le spalle alla scarna disinvoltura del prosare contemporaneo. La Carter affiora da una base gotica non solo nello slancio strutturale, ma anche negli inquieti impulsi indagatori e nel senso di mistero impalpabile, selvatico e quasi soprannaturale, che caratterizzano il Gothic Novel. Ne La camera di sangue – escludendo momentaneamente la distorsione del fiabesco – si esplorano infatti gli aspetti più oscuri del desiderio, le manifestazioni più disturbanti della violenza e il chiasmo tra attrazione e repulsione.
Il pittore simbolista Gustave Moreau raffigura una Salomè ingioiellata e tremebonda che, in un interno istoriato, indica la testa mozza del Battista, da lei fatto decapitare. L’Apparizione, è il titolo dell’opera. Il mio primo rendez-vous con La Camera di Sangue e altre storie ha avuto la stessa sinistra potenza.
Dieci racconti: decalogo viscerale di una sensualità funambolica e sottilmente perversa, di tetra oscenità e sadica lascivia. Il conferimento del potere al personaggio femminile – per esempio la madre salvatrice della riscrittura di Barbablù che dà nome alla raccolta – è brutale. In completa rottura con gli stereotipi della fiabistica che propongono un modello di femminilità soggiacente al desiderio maschile, le eroine della Carter sono donne indipendenti che affrancano la parte naturale – sessuale – del proprio essere. Una sessualità finalmente raccontata al femminile, in cui la donna reclama brutalmente ruolo attivo.
Basti pensare a La Sposa della Tigre: verve scrittoria multisensoriale e sovradescrittiva, al servizio di un distillato voluttuoso in cui eros maschile e femminile sono a singolar tenzone; la matrice è quella de La Bella e la Bestia. Bella – merce di scambio in un mondo di transazioni patriarcali – rifiuta l’erotismo, impostole dal suo ospite, una Bestia spogliata d’ogni substrato umano: il cieco lato animalesco del desiderio maschile, di cui dovrebbe essere oggetto passivo. Riformula, perciò, l’umiliante proposta della Bestia che vuole vederla nuda, schivando il suo sguardo degradante e concupiscente – Spogliarmi per te, come una ballerina? È questo che vuoi? – per porla su un piano di reciprocità. I due protagonisti si guardano nudi – un voyeurismo in cui non c’è lussuria, non subito, ma curiosità – come in uno specchio che rimanda un’immagine di animalità condivisa*: la metamorfosi della protagonista è agli albori. Nel finale, emblematico e trionfante, Bella si trasforma in animale – una rinascita attuata per mezzo dei baci della Bestia – vincendo l’infantile riserbo e imponendo alla Tigre la sua sessualità dirompente.
E ogni colpo di quella sua ruvida lingua sfogliava uno strato di pelle, strati della mia vita nel mondo, lasciando spazio a una lucida coltre di pelo. Perché, poi, non essere solo istinto?
Rinasce, consapevole e coraggiosa, soggetto e non semplicemente oggetto di seduzione. Esattamente quel che accade alla versione di Cappuccetto Rosso che rifiuta il suo canonico ruolo di vittima sacrificale per farsi protagonista del proprio destino, seducendo il lupo e domandolo – Forse le donne e le giovani nascono direttamente dai lupi, già vestite di cappucci e mantelle rosso sangue?
Altrettanto indipendente e padrona di sé è la prima, carteriana, versione – Il Lupo Mannaro – di Cappuccetto: una cacciatrice che usa il coltello per ferire la bestia, salvo poi scoprire che lupo e nonna sono la stessa persona. L’unico vero mostro in un’opera in cui, malgrado l’architettura mostruosa e barbara, non se ne riscontrano altri – neppure l’inedito Barbablù de La Camera di Sangue che, innatamente malvagio, pare costretto a brutalizzare malgrado la sua volontà; oppure è, forse, peccatore assuefatto al peccato tanto da averne nausea?
Oh, il mio piccolo amore che mi ha portato in dono la purezza e la musica! (…) Mio piccolo amore, non saprai mai quanto mi sia odiosa la luce del giorno.
Un racconto di iniziazione – la protagonista, una pianista fragile e inesperta, ha diciassette anni e poco sa del mondo – che ha molto dell’ineluttabilità tragica; un delirio gotico, graveolente, decadente. Non ci sono mostri, certo, ammesso che essi non dimorino in noi, ammesso che come tale venga percepito il lato istintuale, animale e fiero, quiescente nel nostro animo. È il caso di Lupo-Alice, il racconto che chiude la raccolta. Chi siamo in realtà? Chi crediamo di essere? In ognuno di noi si cela il selvaggio, il bestiale e l’erotismo è il terreno di caccia in cui la nostra natura ferale viene alla luce.
Se la Bella si trasforma, progressivamente in Bestia, Alice è proiezione esterna e bestiale del proprio “Es”, almeno finché non diventa donna. Uno straordinario racconto dagli echi carrolliani, in cui il traumatico passaggio da adolescenza a età adulta diventa allegoria.
Che cos’è il corpo della donna, in fase puberale? Il groviglio istintuale che è Alice si disfa grazie all’azione pacificante del mestruo. Deliziosamente decadente; una decadenza che innerva anche La signora della casa dell’amore. Una derelitta versione vampiresca e bambina dell’indimenticabile Miss Havisham di Dickens, una bella sonnambula, tenuta prigioniera nel suo castello da un rosaio aculeato – la Belle au bois dormant!
L’ambientazione è deliziosamente gotica, sepolcrale, almeno quanto deliziosa è la protagonista – Una casa infestata di presenze. – e la veemenza narrativa della Carter, più che maestosa. La scrittrice ironizza sul ruolo stereotipato ed emotivamente sterile dell’eroe fiabesco rappresentato dal giovane in bicicletta – figura maschile positiva, capace di empatia e compassione – e ci regala un cambio di prospettiva che irretisce: la Contessa, la dolente figlia di Nosferatu, bella in maniera deforme, attraverso gli occhi del giovane non è più figura terrifica, ma una bambina vittima della sua condizione, del ripetersi stolido dell’eternità che solo lui ha rotto: una bambina spaventata dal suo stesso sangue a cui l’eroe, commosso, bacia amorevolmente il dito ferito.
Quanta amarezza: la Contessa è svegliata dalla sua non-umanità dal bacio fatidico e non ne resta che polvere! La tendenza dominante è, quindi, caratteristica della riscrittura femminista della fiaba: l’esplorazione dei lati più oscuri e abissali della femminilità.
La scrittura della Carter suscita molteplici domande: cos’è una donna? Come si costruisce un corpo femminile? Un’identità femminile che, nella fiaba, ristagna sotto forma di emanazione del desiderio maschile, come nel racconto più criptico e simbolista, La bambina di neve – una turpe riscrittura di Biancaneve? – in cui la protagonista, una bambina-simulacro-feticcio è oggetto passivo della violenza erotica del Conte – almeno quanto è oggetto di competizione rispetto alla donna più grande.
Lo sguardo del Conte opera una scomposizione: mette, toglie, preferisce, sminuisce quanto più gli aggrada. Non è la prima volta: è lo sguardo maschile, nella fiaba, a operare una riduzione della femminilità; la Carter problematizza apertamente – funzionale il ricorso a un genere di narrazione irreale e arcaizzante come la Gothic Fiction – esplicitando provocatoriamente la latenza misogina del genere.
La Camera di Sangue e altre storie è un’opera maestosa e negromantica cui le tematiche, le atmosfere cupe, la roboanza dello stile e l’incalzare del ritmo conferiscono un’apparenza misteriosa: una selva di simboli che sconcerta lo spettatore e lo tiene a una religiosa distanza.
Un gioiello fiammeggiante.
* Tosi Laura, La fiaba letteraria inglese, metamorfosi di un genere, Venezia, Marsilio Editori, 2007, p. 55, p. 58, pp 65-72, pp 89-90, pp 111-112.