Se andate in vacanza  sul Lago Lemano, in Svizzera, oltre all’ enorme distesa d’acqua e i cestini da picnic degli altri turisti dovreste vedere una statua scintillante che ritrae un uomo col pugno alzato a sfidare il cielo, quasi come se fosse un tetto che si possa sfondare con l’energia di centomila spettatori.

Who wants to live forever

Chiunque abbia avuto 15 anni e una sana passione per la musica rock riconoscerebbe questa posa. Ma anche chiunque abbia mai provato a farsi un paio di baffi davanti allo specchio in una noiosa domenica pomeriggio. Freddy Mercury non è solo il nome di un cantante dalla straordinaria estensione vocale, è un’icona. E le icone sono tali anche senza che sappiamo niente di loro.

Domenica scorsa, complice un freddo assassino, sono andato al cinema a vedere il chiacchieratissimo biopic sui Queen che prende il nome dal loro più celebre pezzo: Bohemian Rhapsody.
Il film ha vissuto una gestazione lunga e complicata. Brian May, chitarrista dei Queen e fra i produttori del progetto, annuncia nel 2010 l’inizio dei lavori: la sceneggiatura viene affidata a Peter Morgan e a Sacha Baron Cohen saranno affidati i panni (e i baffi) di Freddie Mercury.
Le riprese fissate per il 2011 non cominciarono mai, si vocifera per incongruenze fra Cohen e i membri della band e infatti nel 2013 lo stesso Cohen afferma di aver rinunciato alla parte a causa di divergenze artistiche.
Mentre May parla di scioglimento consensuale, l’attore inglese parla di divergenze artistiche profonde:



«I problemi sono sorti per il fatto che volevo entrare nei dettagli della vita di Mercury, compresa quella sessuale. Ci sono storie sconvolgenti su Freddie Mercury, era una persona selvaggia e aveva uno stile di vita estremo, dissoluto… Lo sai, ci sono storie di… come chiamarli? Persone di statura minuta con un piatto cosparso di cocaina che andavano su e giù durante i suoi party. E lo capisco, loro sono una band e vogliono difendere l’eredità della band, lo comprendo benissimo. Un membro della band mi disse che sarà proprio un gran bel film, perché a metà succede qualcosa di sorprendente – muore Freddie. Così lo paragono a Pulp Fiction, dove il finale è a metà, l’intermezzo è alla fine, è un film spericolato, interessante. Poi mi viene detto che sarà un film normale. Così gli domando cosa succede nella seconda parte del film e mi dicono che si vede come la band va avanti facendosi forza, senza Freddie. Gli dissi che nessuno andrà mai a vedere un film dove il personaggio principale muore per AIDS e la band va avanti!»

Sacha Baron Cohen durante un’intervista radiofonica con Howard Stern

Saltano anche anche altre sedie: Ben Wishaw viene chiamato a rimpiazzare Cohen mentre Dexter Fletcher impugna lo scettro della regia, ma già nel marzo del 2014 i due si defilano dal progetto.
Cambia anche la produzione che in principio era della Tribeca Productions e passa alla GK Films, a cui poi si aggiunge New Regency. Cambia nuovamente sceneggiatore, il neozelandese Anthony McCarten, e alla regia spunta Bryan Singer (già regista degli X-Men) ma soprattutto il ruolo del cantante dei Queen passa a mr. robot Remi Malek.

Finalmente i lavori cominciano e finiscono, riuscendo comunque in extremis a far saltare un’ultima sedia, quella di Singer, licenziato per essersi assentato senza spiegazioni dal set per una settimana. Il film verrà terminato da un reintegrato Fletcher salvo poi venire comunque accreditato il solo Singer.

Ma qual è la storia dei Queen? In fin dei conti la band ha una storia semplice e lineare: May e Taylor (chitarra e batteria) suonano già in una band, gli Smile, a cui si aggiunge prima Mercury (voce e piano) e infine Deacon (basso).
Cambiano nome, si impegnano, incidono, e il successo è abbastanza immediato: sono troppo bravi per non sfondare, specie con un catante così carismatico e dall’estensione prodigiosa.

Questa è la vera storia dei Quenn, una storia di successo, di una band amatissima e tutt’oggi celebrata in ogni spot pubblicitario della mulino bianco o del whiskey Ballantines.

È evidente come una storia così lineare poco possa interessare un pubblico cinematografico, ecco perché nel film vengono modificati alcuni eventi e addirittura creata una separazione della band in realtà mai ufficialmente avvenuta.

Dietro le modifiche strutturali necessarie però batte forte il cuore della band e quello che veramente ha significato essere un membro dei queen: il desiderio di comporre musica rock operistica, la convivenza di 4 caratteri diversissimi e un leader (anche se più volte rifiutano la dicitura nel film) carismatico quanto capriccioso, il desiderio di suonare per il pubblico, sempre, al punto da fare canzoni specifiche da cantare allo stadio.

Per forza di cose il film si concentra sul membro più iconico, quel Farrokh Bulsara che passerà alla storia come Freddie Mercury, nato con 4 incisivi più del normale e delle tendenze sessuali evidenti a chiunque tranne che a sé stesso.
Proprio il rapporto fra Freddie e Mary Austin, the Love of my life, è la parte più interessante del film. I due hanno un equilibrio unico, un’attrazione a tratti spirituale interrotta solo dall’accettazione del cantante della propria omosessualità.

Quello che manca invece nel racconto è ciò che di solito non manca mai in questo genere di film e che raramente è difficile da sbagliare, anche nelle narrazioni più scialbe: il racconto degli esordi.
È vero, i Queen hanno avuto vita abbastanza facile: hanno dovuto semplicemente resistere fino a che un discografico non li ha notati. Eppure si sarebbe potuto raccontare meglio la genesi di Bohemian Rapsody da un punto di vista artistico, anziché inventarsi un produttore mai esistito interpretato da Austin Powers che rifiuta di usare quel brano come singolo spaventato dai 6 minuti di durata. Quel “I don’t want to die, sometimes I wish I’ve never been born at all”, “Non voglio morire, certe volte vorrei non essere mai nato”, che nel finale assume un’intensità e un peso ovvi a causa dell’AIDS contratta dal protagonista, non ha nessuna risonanza all’inizio della storia. È il brano che dà il titolo al film, era lecito aspettarsi un suo sviluppo tematico all’interno del film.

Lo stesso ingresso di Freddie negli smile (per non parlare di quello di Deacon, completamente omesso!) è di una banalità e una facilità sconvolgenti: il cantante degli Smile lascia la band e Freddie si propone: bum! Tutto qui. Peccato.

I film musicali, come svela abilmente Whiplash, sono strutturalmente simili ai film sportivi con il musicista che, come l’atleta, deve allenarsi duramente e inventarsi cose pazzesche per farsi notare dai produttori o dal coach.
Bohemian Rhapsody no, non ha bisogno di mostrare le fatiche dei Queen: è ovvio che 4 così spaccheranno il mondo. Eppure si perde l’occasione di empatizzare con il resto della band, di scoprire qualcosa dei 3 di cui raramente si dice qualcosa: chi sono May, Taylor e Deacon? Davvero acettavano il carisma di Freddie senza compromessi? Cosa pensavano delle feste orgiastiche che organizzava? Un fedifrago come Taylor davvero se ne andava via stizzito per delle drag queen in salotto? Davvero delle rockstar erano a disagio in una casa piena di nani con in mano vassoi ricoperti di cocaina?

La sensazione che non si sia voluti andare a fondo là dove era più scomodo, dove faceva più male, aleggia per tutti i 130 minuti della pellicola. Tutto è però ricoperto dallo sfarzo dei costumi di Mercury, dalle canzoni eccezionali e dal glam irresistibile di una delle band più formidabili della storia del rock.

Struggente la ricostruzione dei concerti storici, in particolare il Live Aid, dove un Remi Malek in odore di Oscar trasmette l’amore in due direzioni: quello del pubblico per la band e quello dei Queen per il pubblico.

In ogni acuto, in ogni solo, si avverte il desiderio della band di soddisfare il pubblico pagante, quel “il miglior performer rock di sempre” che Freddie non ha paura a dichiararsi più volte.
Pregevolissimo quindi il lavoro degli attori, non solo per la somiglianza (strabiliante quella fra Gwilym Lee e Brian May), ma anche la resa dello spirito di gruppo, quel senso di affiatamento che trionfa su tutto, dall’inizio alla fine.

Che cosa resta in conclusione, a parte la voglia di mettere a palla tutta la discografia dei Queen, una volta usciti dal cinema?
Un pizzico di dispiacere per una sceneggiatura che poteva essere più ambiziosa, ma anche una luce e un calore fortissimi irradiati da un Malek/Mercury strepitosi (plurale perché la sensazione è che Freddie torni davvero in vita per 130 minuti) che annullano ogni ombra.

È un atto d’amore dei membri superstiti a un uomo che nonostante le sue controversie e complessità ha saputo e continua a catalizzare l’amore di milioni di persone e restituirlo con una forza superiore alla somma delle parti, davvero capace di bucare il cielo.

E dopotutto, è per questo che si diventa un’icona.

“Autotune ha lasciato il gruppo.



Bohemian Rapsody: Un atto d’amore
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