Ammetto che il titolo originale di quest’opera firmata Theodore Sturgeon (The Cosmic Rape, 1958, New York: Pocket Books -1977 ) è decisamente più suggestivo ma, per i non anglofoni, il libro da cercare è I Figli di Medusa (2004 Urania Collezione 018, Arnoldo Mondadori Editore).
I lettori di fantascienza (a pari merito con quelli di fantasy, qualunque cosa stia a indicare questa definizione) solitamente sono i primi a ghettizzarsi e a limitare – il verbo selezionare sarebbe improprio – le proprie letture: chiusi in una prigione dorata disdegnano ogni tipo di vicenda non legata al loro genere di riferimento, felici di ammucchiare volumi (spesso superflui, spesso lambiccati, a volte decisamente futili) utili ad alimentare un gioco virtuale tra tutti gli altri “fan” sparsi per il globo incentrato sugli scambi di citazionismo sterile, Ahhhhh non sai cosa ti sei perso!
Non è difficile arrivare a capire, allora, da dove provenga l’immagine dell’appassionato medio di science fiction, incarnata dalla figura del nerd sfigato, moderatamente autistico, dalla prolungata astinenza sessuale. Paradossale, visto che gli interpreti migliori del genere sono stati proprio quelli che hanno tentato di sfondare le barriere comunicative e i confini di settore. Chi ha saputo distinguersi nella fantascienza è riuscito anche a plasmare la stessa come mezzo espressivo per comunicare le angosce del presente e le paure del domani, oltre i vincoli del reale.
Sturgeon è uno di questi scrittori e The Cosmic Rape ne è un’evidente dimostrazione.
In questo romanzo breve, la simbiosi tra Gurlick, barbone scontroso e alcolizzato, e un’entità aliena senziente (la Medusa del titolo) si fa motore narrativo capace di sviluppare un discorso strutturato sull’incomunicabilità. Lo spunto è usato come pretesto per descrivere le difficoltà delle relazioni interpersonali e le incoerenze comportamentali:
Nonostante tutta l’abilità nel lavorare di concerto con i suoi simili e nel creare una relazione con le loro vibrazioni, l’uomo rimane isolato: nessuno sa esattamente cosa sentono gli altri. L’acme delle sue sensazioni si avvicina all’incoscienza… ma incoscienza di che cosa? Di tutto quello che lo circonda, mai di sé.
Giocando con i punti di vista e alternando una nutrita schiera di personaggi, Sturgeon viviseziona l’inconscio umano in una narrrazione che nulla concede alla spettacolarità e alla faciloneria.
Nella quadra finale forse l’autore non riesce a bilanciare pienamente tutte le diverse parti e, pagando un certo debito nei confronti del suo tempo e delle tendenze “flower power” anni sessanta, l’epilogo può lasciare delusi gli amanti delle conclusioni dal sapore amaro.
Nonostante questo ci si trova di fronte a una pagina di fantascienza consapevole, non pretenziosa ma nemmeno consunta. Un libro genuino, in grado di affrontare un qualunque lettore – di genere o meno – a testa alta.
Perché la letteratura (di qualunque tipo) dovrebbe almeno tentare di togliere i paraocchi e non fornirne di più sofisticati: non siete d’accordo?
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